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Anna Bolena ritrovata

L'opera di Donizetti proposta a Roma in versione integrale

Liberata dai dolorosi tagli imposti dalla tradizione, l'Anna Bolena andata in scena in forma integrale al Teatro dell'Opera di Roma evidenzia finalmente le ampie arcate drammatiche vergate dall'ispirazione donizettiana, particolarmente a proprio agio in un dramma storico intriso di romanticismo. Il compositore, ormai perfettamente consapevole dei propri mezzi, costruisce un meccanismo privo di orpelli, in grado di procedere inesorabile verso la propria conclusione. La vicenda della regina accusata di adulterio, ripudiata e condannata a morte da un volubile Enrico VIII, culmina in una scena finale pregna di implicazioni catartiche. Donizetti tratteggia con efficacia l'oscillare irrequieto fra sanità e follia della protagonista, approfondendo la psicologia del personaggio come forse non aveva mai fatto prima. In quest'ottica, proprio nel finale ravvisiamo un decisivo cambio di passo, nel consapevole abbandono delle formule stereotipate a favore di una maggiore libertà espressiva. Merito anche di Felice Romani, il quale organizza un libretto nel complesso ben confezionato, perfettamente funzionale alle esigenze del compositore.

Riguardo l'allestimento, le scene di Luigi Ferrigno, ricavate da un'idea di Sergio Tramonti, delineano un mondo plumbeo e claustrofobico nel quale dominano il rosso del sangue e il nero della tenebra. Il letto di Anna, da luogo di possibili amplessi si muta nella prigione che la vedrà reclusa nel secondo atto. Peccato per la regia di Andrea De Rosa, non sufficientemente approfondita e curata nei movimenti scenici. Riccardo Frizza dirige con impeto e vigore, staccando agogiche a volte eccessive, riuscendo comunque a veicolare l'urgenza del dramma. Maria Agresta è una protagonista notevole, dalla vocalità costantemente al servizio dell'espressione. Nel finale tratteggia in maniera eccellente il delirio di Anna, gli slanci e i ripiegamenti di un'anima che dapprima vagheggia una realtà inesistente, per poi riappropriarsi della propria coscienza e offrire il perdono ai suoi carnefici. Un gradino al di sotto la Seymour di Carmela Remigio, vocalmente un poco usurata ma capace di scatti graffianti. Dario Russo è un Enrico VIII arrogante e vendicativo come si conviene, apprezzabile nel primo atto, appannato nel secondo. René Barbera se la cava piuttosto bene nella parte impossibile di Percy, che fu del mitico Rubini. Gli acuti sono, quasi tutti, squillanti, e il temperamento è adeguato al personaggio. Convincente Martina Belli nel ruolo del paggio Smeton, al quale la riapertura dei tagli consegna un'aria pregevole. Pessimo il Signor Hervey di Nicola Pamio. Ottimo infine il Rochefort di Andrii Ganchuk, giovane scoperta del progetto “Fabbrica” del Teatro.

Riccardo Cenci

2/3/2019

La foto del servizio è di Yasuko Kageyama.