RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

B di Bruckner, C di Casella, E di… Lombardi

Luca Lombardi

Per il penultimo appuntamento della sua stagione concertistica, sabato 23 aprile 2016, direttore Fabio Luisi, il Teatro Regio di Torino ha dedicato un grazioso cammeo ad Alfredo Casella: la Suite dei Pupazzetti nella versione per orchestra da camera del 1920 (Op. 27c). Si tratta dell'ultimo omaggio al compositore che proprio a Torino vedeva la luce nel 1883 e al quale è stato dedicato, da parte di varie istituzioni musicali della città, il «Festival Alfredo Casella» dall'11 al 24 aprile. Nati in una fase di sperimentazioni alla fine del periodo parigino, i Pupazzetti furono concepiti originariamente per pianoforte a quattro mani (Op. 27) e vennero trascritti in seguito due volte. La seconda trascrizione, in programma in questo concerto, non rinuncia all'impronta tastieristica delle sue idee, includendo nell'organico un pianoforte concertante. Sono «cinque pezzi facili» (Marcetta, Berceuse, Serenata, Notturnino, Polka) umoristici, ritmati, declinazione italiana del tema della marionetta che vede coevi sviluppi nel Petruška stravinskijano (e Casella è stato il primo nella storia a dedicare a Stravinskij una monografia) e nei Puppets di Bohuslav Martinu.

Luisi imprime alla Marcetta un impeto motoristico impersonale che non sfigurerebbe in molti passaggi pianistici di Prokof'ev e dona alla Berceuse una sonorità contenuta e misteriosa, su cui spesso spicca il fagotto. Atmosfera sonnolenta e ovattata per il Notturnino, grigia, lievemente angosciante (il rarefatto pianoforte quasi gocce d'acqua ghiacciate sulla schiena…); non così vivace, più che nella velocità, nell'interpretazione, la Polka conclusiva, sottotono rispetto alla Marcetta d'apertura.

L' akmé della curiosità è stato raggiunto a metà serata da E, Concerto per flauto e orchestra di Luca Lombardi, compositore romano classe 1945, presentato in prima esecuzione italiana con Andrea Manco solista e l'Orchestra del Teatro Regio di Torino; sul podio un Fabio Luisi visibilmente emozionato.

Per un approfondimento su Luca Lombardi si rinvia al suo sito http://www.lucalombardi.net/home/it_IT/. Il titolo del Concerto, E, rimanda all'iniziale del flautista per il quale è stato pensato, il ginevrino Emmanuel Pahud, che lo ha presentato in prima assoluta il 19 febbraio 2010 al Lyric Theatre di Kansas City, accompagnato dalla committente Kansas City Symphony Orchestra. Non solo: il tema principale è ricavato dalle lettere del nome e cognome di Pahud che, in notazione tedesca, sono suscettibili di esser viste come note: E, A, E, A, H, D: mi, la, mi, la, si, re: una dedica “interna” come già Berg aveva fatto nel suo Kammerkonzert in omaggio a Schönberg e Webern.

Lombardi chiede un'orchestra molto nutrita, con, tra gli altri, tromboni, tuba, macchina del vento (eoliofono) e una folta schiera di percussioni (oltre a timpani, piatti e grancassa, campane, rullante, nacchere, tom da batteria, woodblocks e chocalho, un idiofono tipico della samba). Rinunciando a indicazioni agogiche esplicite, Lombardi prescrive per i tre movimenti del Concerto le esatte velocità metronomiche, staccando le semiminime rispettivamente a 80, 50 e 120.

Nato dopo un soggiorno a Jaffa, sud di Tel Aviv, il Concerto risente delle suggestioni mediorientali a contatto dei canti dei muezzin. Il primo movimento evoca una notte misteriosa di luna piena su un deserto, serena eppure inquietante per via di ombre, sussulti e fruscii (grazie alla macchina del vento). Rapide esplosioni orchestrali si placano subito per fare spazio a sezioni più calme. Il flauto solista, più che essere il vero protagonista, è concertante: dialoga, commenta e raramente si oppone nettamente agli altri strumenti. Il secondo movimento approfondisce, rallentandolo, il discorso melodico del primo, rendendolo denso, materico e insieme diafano: pagina delicata e gentile, in cui più evidenti si fanno qui le evidenze arabeggianti, anche con passaggi microtonali. Disomogeneo e molto meno convincente invece il terzo movimento, basato, quasi come partito preso, sulla contrapposizione di registri estremi, da una parte i frizzi sovracuti e taglienti del flauto e gli armonici ai limiti dell'accordatura dei violini, dall'altra le emissioni a bassissima frequenza del controfagotto. Segue una sfuriata delle percussioni che poco dopo si quieta, per finire spegnendosi. Al solista è richiesto il ricorso ad una tecnica che l'auletica antica avrebbe disconosciuto, con colpi di lingua e suoni frullati, un uso insomma insolito, ma non così raro nelle composizioni contemporanee, ricorso che non sembra però giustificato da esigenze melodiche, quanto più timbriche.

Andrea Manco, Primo Flauto dell'Orchestra del Teatro alla Scala e della Filarmonica del Teatro alla Scala dal 2014, si esibisce in una performance molto convincente: l'eccezionale dominio dello strumento in ogni registro è il suo punto di forza, assieme ad un'emissione costante e precisa del fiato. Al termine dell'esecuzione, dopo un applauso a direttore, compositore (salito sul palco a prendersi la sua parte di merito) e orchestra, si è congedato con un encore bachiano, la prima metà dell'Allemanda dalla Partita per flauto solo in la minore BWV 1013.

Monumentale, la Settima Sinfonia in mi maggiore WAB 107 di Anton Bruckner chiude il concerto, occupandone per intero la seconda parte. Penultima fatica sinfonica completa del compositore di Ansfelden (dopo l' Ottava, la Nona rimase priva del finale), la Settima rappresentò per Bruckner la svolta della vita, accolta come fu, fin dalla prima esecuzione, il 30 settembre 1884, con grande favore. Si tratta di uno specimen perfetto dell'esacerbazione tardoromantica della sinfonia classica, la disgregazione dei cui canoni, stabiliti da Mozart e Haydn, iniziando con l'ultimo Beethoven e attraversando tutto il Romanticismo fino a Brahms, avrebbe trovato proprio negli esperimenti bruckneriani la fusione con il principio del Leitmotiv wagneriano (soprattutto nell'Ottava) e il superamento definitivo nelle creature sinfoniche di Mahler.

L'impalcatura è ancora quella in quattro movimenti, ma le forme sono estremamente dilatate, il principio del sonatismo bitematico diventa, nel primo movimento, tritematico, l'orchestra si allarga raddoppiando il numero dei corni, includendo quattro tube wagneriane, che altro non sono se non corni baritoni: l'ammirazione per il suo idolo di sempre, Wagner, scomparso appena l'anno prima, che nella Tetralogia aveva ampliato soprattutto la sezione degli ottoni, è qui evidente più che mai.

Inaspettatamente, Luisi non riesce a infondere, salvando i passaggi in cui l'orchestrazione parla da sé, quella grandezza, quella magniloquenza di cui quasi tutto Bruckner si nutre. Nel complesso l'esecuzione si salva, e, a giudicare dagli applausi, viene gradita. Ma chi si è fatto le orecchie sul Bruckner di Celibidache (che, guarda caso, scelse proprio la Settima per il suo grande ritorno ai Berliner Philarmoniker nel 1992) non può non sorvolare su certe finezze (qui, ahimè, mancanti). Il primo movimento, Allegro moderato, non eccede nella velocità, come si concede un Claudio Abbado, per esempio: e va bene; ma quell'arpeggio iniziale dei violoncelli manca di profondità, di intenzione. Anche il finale, benché poderoso, non raggiunge quello spessore interpretativo che Bruckner necessariamente richiede. Si badi: non è esecuzione da rigettare: ché i numerosi passaggi dove l'orchestra si assottiglia, ed emergono i frequenti soli del flauto, sono condotti con notevole dolcezza e il respiro melodico in generale è ampio, majestoso (sic nella Sesta bruckneriana!). Il secondo movimento, uno degli Adagi più complessi e densi di Bruckner, strutturato come una serie di episodi più o meno in relazione tra loro alternati ad un refrain che torna quattro volte, non diventa mai fiacco, grazie ad un tempo mantenuto al limite superiore della definizione di Adagio (quasi un Andante molto moderato), il suo colore è costantemente brunito, grazie all'ottimo peso dato alle tube wagneriane, solenne, dall'andamento a tratti simile a quello d'un corale: così, anche l'esplosione sonora con piatti e triangolo rimane all'interno di un clima riflessivo. Attenendosi all'indicazione Sehr schnell (Molto veloce), lo Scherzo, terzo movimento, mantiene una tensione singolare dall'inizio alla fine, a scapito però della grandiosità. Poco male: Luisi compensa accentuando notevolmente la componente ritmica e portando lo scrivente a istituire un paragone con lo Scherzo della Nona beethoveniana. Anche il Trio, che si vorrebbe più lasso e più poetico, riesce a convincere. La direzione migliora nel Finale, in cui l'indicazione Bewewgt, doch nicht schell (Mosso, non troppo veloce) sembra rispettata. L'esecuzione non è così ben cesellata nei dettagli, e i passaggi migliori risultano necessariamente quelli d'insieme. Si consideri anche che quella del Teatro Regio è un'orchestra principalmente operistica, tra l'altro alle prese in questo periodo con un'opera non di repertorio (la già menzionata Donna serpente): preparare in poco tempo e con profondità un mastodonte come la Settima di Bruckner non è cosa facile. Sono pertanto scusabili alcune diacronie, specialmente negli attacchi dei corni, croce e delizia di molte orchestre, e alcune sbavature dei fiati nel primo movimento.

Christian Speranza

29/4/2016