RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Sotto il segno di Beethoven.

E di Mendelssohn. E di Šostakovic.

L'inaugurazione della stagione 2019/2020 dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), venerdì 11 ottobre 2019, non avrebbe potuto avere esito migliore. Auditorium Arturo Toscanini di Torino gremito e gran favore di pubblico e critica per un concerto che ha offerto, sotto la bacchetta di James Conlon, direttore principale dell'OSN dall'ottobre del 2016, tre pagine del grande repertorio sinfonico.

Si parte con l'Ouverture dall'Egmont Op.84 di Ludwig van Beethoven. Il brano fa parte delle musiche di scena per l'omonimo lavoro teatrale di Goethe, che celebra le gesta di Lamoral, conte di Egmont, decapitato durante la repressione spagnola del 1568.

Conlon ne predilige l'aspetto epico, grandioso, grazie all'adozione di un tempo pur sempre Allegro, come prescritto, ma moderato. Scelta in apparenza fuori luogo. Valutando i metronomi straordinariamente veloci a cui stacca le Sinfonie, quando il metronomo cominciò a circolare nella seconda decade dell'Ottocento, si può presumere che Beethoven concepisse le sue composizioni (i tempi veloci, almeno) come pezzi rapidi e scattanti. La scelta di Conlon pone l'accento invece sulla magniloquenza del brano, dandogli, con l'espediente di una relativa lentezza, un taglio più propriamente narrativo, più lasso, trattandolo, per capirsi, come un primo tempo di una sinfonia bruckneriana (con le dovute differenze). Non c'è nerbo o tensione drammatica, in questa esecuzione, oltre quella suggerita dalle note stesse. Almeno per tutta la prima parte. Perché, all'apparire della coda, Allegro con brio, si assiste per contrasto ad un effetto di autentica liberazione da quel senso di oppressione che grava su tutto il pezzo. L'effetto galvanizzante è assicurato, ed è probabilmente il fine del (credo) voluto rallentamento dell' Allegro.

A seguire in scaletta il Concerto per violino, pianoforte e orchestra in re minore (MWV O 4) di un Felix Mendelssohn-Bartholdy quattordicenne che, nel 1823, pur avendo già composto una dozzina di sinfonie per archi, fatica a mettere a punto un concerto per più solisti. Ricicla così una sonata per violino e pianoforte, scritta per Eduard Rietz, suo maestro di violino, e le affianca un'orchestra che si limita a ornare qua e là il discorso di pertichini. La materia melodica è ancora incerta, fra classicismo haydniano e cantabilità primo-romantica. Anche la forma lascia a desiderare: le soventi digressioni solistiche, quasi cadenze, sfrangiano l'architettura della forma-sonata e del rondò, che stanno insieme in modo precario. Ma in fondo, parliamo di un quattordicenne che si confronta con una tradizione dal peso insostenibile, che annovera capolavori quali il Triplo Concerto Op.56 dello stesso Beethoven.

A dar vita a questo saggio giovanile sono chiamati Roberto Ranfaldi (violino) e Mariangela Vacatello (pianoforte). L'esecuzione è pregevole, e nell'Adagio centrale il duo sfodera sonorità di incredibile dolcezza. Primo e terzo movimento vengono però incrinati da lievi quanto perdonabili sbavature. Si può imputare alla Vacatello un'eccessiva energia in alcuni attacchi, una certa ruvidezza nelle scale sgranate nota a nota – che si traducono in sonorità aggressive, visto il contesto quasi cameristico di molti passaggi. Quanto a Ranfaldi, qualche scivolone nelle arcate veloci pregiudica la chiarezza di un'esecuzione altrimenti ineccepibile. Chi conosce l'OSN, sa bene che Ranfaldi è primo violino di spalla: un violinista d'orchestra, quindi, non un solista tout court: partendo da questo dato, l'esecuzione cui dà vita è senz'altro apprezzabile.

Al termine del Concerto, due fuori programma entrambi mendelssohniani: una romanza senza parole il primo, dal tipico refrain ogni poco ricorrente, e il Canto di primavera Op.62, n.6 il secondo, trascritto per i due solisti dall'originale per pianoforte.

La serata si conclude con la Sinfonia n°5 in re minore Op.47 di Dmitri Šostakovic, pagina del 1937 grazie alla quale il compositore venne riabilitato agli occhi del regime sovietico, colpito negativamente dalle arditezze sperimentali della Quarta e dalla Lady Macbeth, che aveva fatto storcere il naso a Stalin. È una composizione vasta, in certi punti piuttosto pletorica, esteriore, ma dall'ascolto più accessibile rispetto ad altre. Proprio quello che voleva il Partito, insomma.

Le voci che vorrebbero Conlon un direttore routinario e convenzionale dovrebbero ricredersi, vedendolo dirigere tutto il concerto a memoria, Quinta di Šostakovic compresa: e vedendolo prodursi, oltretutto, in una lettura non priva di mordente e di sottolineature interessanti della strumentazione, che lasciano emergere lati il più delle volte negletti della partitura. Impressionante lo sviluppo del primo movimento, dove purtroppo le trombe non riescono a imporsi col dovuto squillo sulla massa orchestrale, quasi coperta dalle folte percussioni durante l'episodio della marcia militare. Fortemente caratterizzato e spavaldo l'Allegretto che segue, con funzione di Scherzo, fra accenni di fanfare, danze caricaturali e il querulo oboe di Nicola Patrussi a chiedere pietà, prima di essere travolto dalla chiusa del movimento.

Il Largo, sebbene di esecuzione più convenzionale, riesce a coinvolgere per l'intensità dei tremoli agli archi e per l'atmosfera di attesa rarefatta, ottimo preludio per il finale che irrompe senza pausa. Ed è proprio nell'attacco dell' Allegro non troppo conclusivo che Conlon conferma tutto il suo valore. Ritengo infatti che uno dei tempi più difficili da prendere, nel repertorio sinfonico, sia proprio quello dell'attacco di questo movimento: se troppo lento, rende bene all'inizio ma perde di efficacia nel prosieguo; se troppo veloce, suscita l'impressione opposta. Quello che ci vuole è un'impercettibile cambio di tempo, che segua l'espressività della melodia: e Conlon, qui, ci riesce in pieno.

Applausi lunghi e meritatissimi non solo al direttore, ma all'orchestra tutta, che dimostra ancora una volta tutto il suo valore, soprattutto per il fatto di avere, tra le sue file, nuovi componenti e nuove prime parti, come il primo violino Giulio Plotino, chiamato a sostituire sia Roberto Ranfaldi, impegnato nel Concerto di Mendelssohn, sia Alessandro Milani, recentemente colpito dal lutto per la scomparsa della figlia Beatrice, al quale va il cordoglio dello scrivente.

Christian Speranza

16/10/2019

La foto del servizio è di Piuluce.