RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Il Freischütz alla Scala

il diavolo nel giardino dell'Eden

Nel Freischütz Carl Maria von Weber riesce nell'arduo compito di rendere la doppiezza del reale come forse mai era avvenuto prima. L'apparente sicurezza del mondo Biedermeier viene incrinata da una crepa sottile, dalla quale fuoriescono ombre minacciose. Paurosi presentimenti si ascoltano fin dall'ouverture. Utilizzando al massimo delle sue potenzialità la forma del Singspiel , Weber condensa tutti gli elementi dell'universo romantico, fondendoli in un crogiolo stilistico estremamente vario e pregnante. Commedia e tragedia convivono, spazzando via ogni illusione di ritorno a un ordine sociale definitivamente compromesso. L'idillio campestre è il fantasma di un paradiso perduto, di un mondo ormai tramontato al quale si guarda con struggente nostalgia. In questo senso l'opera appare modernissima, sorprendentemente attuale in quanto specchio nel quale si riflettono gli innumerevoli momenti di crisi che ciclicamente interessano la nostra storia.

Di questa lungimiranza drammaturgica l'allestimento presentato alla Scala coglie solo in parte la complessità. Lo spettacolo di Matthias Hartmann è piuttosto didascalico, povero di idee capaci di scavare a fondo nella drammaturgia weberiana. Le scene di Raimund Orfeo Voigt appaiono irrisolte nel loro mescolare l'antico, la foresta plumbea e tempestosa, con il moderno, rappresentato da luci al neon che delineano i paesaggi montani e gli spazi borghesi, minacciati dal demoniaco che si manifesta sotto forma di strane creature, apparentate all'immaginario di Bosch. Comunque suggestiva e colma di pathos la scena della gola del lupo, impressionante nel suo progressivo parossismo. Il conclusivo ritorno all'ordine viene per così dire sporcato dai due amanti, i quali impugnano i fucili contravvenendo al divieto imposto dall'eremita, vero e proprio deus ex machina al quale è affidata la risoluzione della vicenda. La violenza è destinata a perpetuarsi in un cammino inarrestabile. I coloratissimi costumi di Susanne Biskovsky e Josef Gerger contribuiscono a rammentare allo spettatore che siamo in presenza di una fiaba, all'interno della quale trovano spazio sia l'elemento diabolico quanto quello ludico e sognante. Gli abiti tradizionali dell'ambientazione boema trovano in quest'ottica una declinazione visionaria e fantasiosa di grande effetto.

Il direttore Myung-Whun Chung sfugge gli eccessi del romanticismo più spinto, offrendo una lettura perfettamente calibrata ma non arida nei contenuti. Sotto la sua guida l'orchestra si diffonde in trasparenze di cameristico nitore. L'articolazione è varia e pulsante, pervasa da un dinamismo continuo e innervata da folgorazioni improvvise che sembrano svelare quanto di terrificante si cela dietro l'apparente naturalezza delle cose. Riguardo il cast, Gunther Groissböck dona tutto il proprio talento vocale e interpretativo alla malvagità di Kaspar, dosando in maniera eccellente gli accenti tenebrosi propri del ruolo. Un gradino al di sotto risulta il Max di Michael König, sostanzialmente corretto ma dalle potenzialità impari all'eroismo del ruolo. Julia Kleiter è una Agathe verginale e purissima nell'emissione, alla quale manca forse un poco di spessore per rendere completo il personaggio. La affianca Eva Liebau, una Ännchen frizzante e ben cantata. Apprezzabili l'Ottakar di Michael Kraus, il Kuno di Frank Van Howe e il Kilian di Till Von Orlowsky. Possente, sia dal punto di vista fisico che vocale, l'eremita di Stephen Milling. Sala non particolarmente gremita, nonostante questo titolo di capitale importanza negli sviluppi del teatro d'opera tedesco mancasse dal palcoscenico scaligero da quasi venti anni.

Riccardo Cenci

23/10/2017

La foto del servizio è di Brescia e Amisano-Teatro alla Scala.