RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Party sotto le bombe (con fagotto)

Scavare nella produzione cosiddetta “minore” di un compositore (laddove “minore” è spesso solo sinonimo di “eseguito non di frequente”) significa addentrarsi in miniere ricche di sorprese. Il catalogo di Carl Maria von Weber, per esempio, vissuto a cavallo fra Sette e Ottocento, noto soprattutto come operista (Die Freischütz Il franco cacciatore – è considerata la prima opera nazionale tedesca), annovera tutta una produzione sinfonica, concertistica e cameristica largamente ignorata; e se l'Invito alla danza Op. 65 si è salvato dall'oblio, è solo perché Berlioz ne curò la trascrizione orchestrale dall'originale per pianoforte.

Per il quattordicesimo appuntamento della stagione della Rai, giovedì 25 e venerdì 26 febbraio 2016 (ci si riferirà qui alla seconda esecuzione), l'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN) ha deciso di dar voce a due di questi lavori “minori” di Weber: l'Andante e Rondò all'ongarese in do minore per fagotto e orchestra Op. 35 , del 1813, ed il Concerto per fagotto e orchestra in fa maggiore Op.75, del 1811-12.

La letteratura fagottistica è invero nutrita, anche se poco conosciuta: e se Mozart scrisse un solo Concerto per fagotto e orchestra (K 191), Vivaldi ne scrisse ben 39. Le due composizioni di Weber indagano le possibilità timbriche di questo strumento che, evolutosi dalla dulciana rinascimentale, si è conquistato un posto di rilievo in epoca romantica e post-romantica (si pensi all'uso che ne ha fatto Dukas nell'Apprendista stregone o Prokof'ev in Pierino e il lupo, tanto per citare due esempi famosi). La prima, che esprime in quell' ongarese un mood vagamente malinconico (“ongarese”, cioè zigano, in questa accezione, più di nome che di fatto) e che s'incontra già per esempio nel Trio in sol maggiore Hob.XV:25 di Haydn (complice in quel caso la corte ungherese degli Esterházy, presso cui lavorava), scava nel registro grave dello strumento nell'Andante, per poi impennarsi e impreziosirsi di agilità nel Rondò. Innegabili le parentele con la musica dell'epoca: l'influenza di suo cugino in seconda Mozart (Weber era il cognome della moglie di Wolfgang) si percepisce fin dalle prime note, che ricordano il tema dell'Allegretto dal Concerto per pianoforte K 491; e in quell'inciso di tre note brevi e una lunga del Rondò è riconoscibile una cellula melodica di un altro Concerto mozartiano, il K 503, che già prelude alla più celebre Quinta Sinfonia di Beethoven, risalente all'incirca allo stesso periodo (1807-8). La seconda invece è un classico concerto in tre tempi, veloce-lento-veloce, con la sonorità resa maestosa da trombe e timpani, in cui l'istanza virtuosistica non prevarica su quella melodica, di stampo vagamente mozartiano-haydniano. Non vi è qui la spinta ad innovare dal punto di vista formale, solo la volontà di omaggiare uno strumento ricco di potenzialità espressive (ed il committente del concerto, il fagottista Friedrich Brandt).

Oleg Caetani, chiamato a dirigere l'OSN all'auditorium Arturo Toscanini di Torino, preferisce cristallizzare i due brani sotto una patina di sobria compostezza, eliminando una verve che probabilmente ha ritenuto eccessiva. Il taglio direzionale risulta così fortemente personalizzato; non dispiace, tanto più che i brani, soprattutto il secondo, rinuncia al virtuosismo fine a se stesso. Andrea Corsi, primo fagotto dell'OSN dal 1990 e per l'occasione solista, ha modo di esprimere le sue doti non comuni, grazie ad una direzione attenta, che impedisce all'orchestra, limitata a 11 violini primi e fiati “a due”, sia di eclissarsi dietro di lui, sia di sovrastarlo eccessivamente.

Di tutt'altro stampo è invece la direzione che Caetani riserva al brano della seconda parte del programma, la monumentale Settima Sinfonia in do maggiore Op. 60 di Dmitrij Šostakovic, del 1941. Storia singolare, quella di questa sinfonia: scritta per più di metà durante l'assedio nazista di Leningrado, la città che diede i natali al compositore stesso nel 1906 e che cambiò nome in San Pietroburgo nel 1991, venne completata a Kujbyšev, cittadina molto distante dai luoghi di svolgimento della guerra, dove il governo aveva aperto una «Casa dei compositori» per dare rifugio ai musicisti più illustri. Per la prima parte dell'assedio, Šostakovic contribuì attivamente alla difesa della città – alcune fotografie lo ritraggono con la divisa da pompiere sul tetto del Conservatorio – ma allo stringersi della morsa tedesca, fu costretto ad abbandonarla. L'Unione Sovietica intendeva mostrare che, più che la resistenza fisica, la Germania non sarebbe stata in grado di fiaccare quella intellettuale: venne diffusa la notizia che Šostakovic aveva composto la Settima a Leningrado, sentendo i muri di casa sua tremare per le granate tedesche: per citare l'autobiografia di Elias Canetti, un Party sotto le bombe! Battezzata quasi subito “Leningrado”, la nuova sinfonia venne eseguita per la prima volta proprio nella remota Kujbyšev da un'Orchestra del Bol'šoj ridotta allo stremo, sotto la direzione di Samuel Samosud il 15 marzo del 1942 e apposta trasmessa per radio (su questa vicenda, si legga la versione romanzata di Sarah Quigley Sinfonia Leningrado, godibilissimo libro fedele almeno nei personaggi).

Dopo aver fatto ingrandire l'orchestra, portandola a 16 violini primi (numero minimo richiesto da Šostakovic in partitura), cioè 60 archi in totale, Caetani dà vita ad un primo movimento che mira soprattutto a non far perdere la tensione in nessun punto: la prima parte è condotta con maestosità, sì, ma anche con attenzione a non appiattire i passaggi cameristici, come i soventi assoli di flauto (in questo si sente l'influenza di Kondrašin tra i suoi maestri). La parte centrale dell'Allegretto è un ostinato in cui un tema schematico, semplice, quasi banale, viene ripetuto uguale per dodici volte in un crescendo che coinvolge sempre più strumenti ed un accompagnamento sempre più complesso (similmente a quanto Ravel aveva fatto nel suo Boléro, del 1928), scandito da un ritmo di marcia militare del rullante (ad libitum, scrive Šostakovic, i rullanti variano da uno a tre: e Caetani richiede esattamente tre rullanti), per tutte e dodici le ripetizioni (prestazione massacrante per il percussionista, chiamato a ripetere per più di duecento battute lo stesso inesorabile ritmo!). L'irrompere della guerra è dipinto da Šostakovic anche con dramamaticità (nelle ultime ripetizioni), ma soprattutto con ironia: Robert Dearling vedeva in questa meccanica ripetitività sempre più allucinata «un'orda di robots militari in marcia». È interessante notare che, quando l'Unione Sovietica vincerà la guerra e Stalin chiederà a Šostakovic una grande sinfonia di vittoria, il compositore scriverà la piccola e clownesca Nona, per nulla trionfale: quale altare di vittoria può essere eretto sui corpi di milioni di caduti? Non è forse una sconfitta per tutta l'umanità? Ecco perché il massimo della drammaticità di quegli anni Šostakovic lo riserva all' Ottava , un requiem per i caduti di tutte le guerre. Caetani, però, all'arrivo del rullante che introduce l'ostinato, accelera leggermente, ed accelera ancora di più vero la fine del grande crescendo . Non avrà seguito alla lettera la partitura, ma un filmato immortala Šostakovic suonare al pianoforte proprio questo passaggio ad una velocità molto sostenuta per essere definita Allegretto: https://www.youtube.com/watch?v=nOKL_q-Ribs

Fedeltà o meno alla partitura, quando si ha un documento originale non si può trasgredire.

Il secondo e il terzo movimento (originariamente intitolati Ricordi e Le distese natie, come il primo avrebbe dovuto intitolarsi Guerra; titoli che poi saranno espunti) hanno funzione di alleggerire la tensione dopo il primo, vastissimo movimento (di circa 25-26 minuti). Anche qui la tendenza di Caetani è quella di accelerare i tempi della tradizione; e, se per il secondo movimento, Moderato (poco allegretto), questa scelta è ancora ammissibile, nel terzo, Adagio, che si apre con un corale dei fiati, quasi a voler trovare un momento di raccoglimento, di stasi lirica, l'eccessivo dinamismo compromette in parte l'esito emotivo (non certo tecnico, ché l'OSN si dimostra impeccabile sempre) dell'arco melodico, nonostante sia prevista un'accelerazione nella sezione centrale.

Termina la Settima il finale, originariamente intitolato Vittoria: dopo una parte guerresca ed infiammata, che rappresenta la risposta russa all'invasione tedesca, segue una parte centrale più calma, che sfocia impercettibilmente, attraverso passaggi e dissonanze volutamente all'inizio poco comprensibili – come il sole quando si fa largo tra le nuvole – in una gloriosa fanfara. L'organizzazione del materiale tematico è quindi parallela a quella del finale della Quinta, ma con ambizioni diverse. Anche qui Caetani non si fa cogliere impreparato: la sua lettura torna ad essere scattante come nell'ostinato del primo movimento per quanto riguarda la prima parte, un Allegro non troppo soggetto ad interpretazione; ma, quando ci si aspetterebbe un cambio di velocità per enfatizzare le ultime battute, un rallentamento, ecco che Caetani non rallenta, lasciando alla sola orchestrazione il potere di incantare il pubblico: la musica, fino all'ultima pagina, è percorsa da terzine di sapore marziale che non concedono spazio ai ritenendo o agli allargando, se non a patto di attenuare la componente fondamentalmente militaresca dell'intera sinfonia (le sinfonie di Šostakovic di questi anni sono note come War Symphonies, non solo per l'epoca di composizione): ma, intrecciato a questo tema trionfale, è incastonato un frammento del primo tema del primo movimento, la vita di Leningrado prima della guerra, secondo il compositore. Come a dire: dopo la guerra e la vittoria, finalmente ci si riappropria della patria.

Numerosi i richiami sul palco da parte di un pubblico che ha premiato gli artisti con lunghi e partecipati applausi.

Christian Speranza

8/3/2016