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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Il cappello di carta di Gianni Clementi

inaugura la stagione 2012-2013 del teatro Brancati

Il teatro Brancati di Catania ha inaugurato la stagione il 25 ottobre con un lavoro di Gianni Clementi, agguerrito e prolifico autore teatrale: Il Cappello di carta. Nonostante la crisi morda da più di un anno con ferocia le tasche degli italiani, e nonostante il nostro beneamato (ma da chi? ma chi lo sopporta più?) governo si diverta a taglieggiare e a depredare tutte le istituzioni non direttamente riferibili a banche, holding e multinazionali varie (cioè sanità, cultura, scuola e via dicendo), il vivace teatro di via Sabotino mostra di essere ancora in grado di imbastire un cartellone di buon livello, che ha senz'altro il merito di offrire al pubblico un prodotto vario e diversificato, privo delle auguste ripetizioni (abluzioni goldoniane varie, riedizioni, improbabili riscoperte, farse assortite), e soprattutto delle tremende e indigeste riduzioni per il teatro di romanzi, che affliggono enti di più ampie dimensioni ma dal respiro un po' corto.

Senza divagare troppo, anche per evitare noiose patologie epatiche, vale senz'altro soffermarsi su Il cappello di carta, lavoro dal taglio realista soffuso di minimalismo, che riecheggiava nostalgicamente, sia per l'ambientazione (a Roma nell'inverno del 1943), sia per la recitazione, naturalistica ma senza mai scadere nel naïv, quel bel cinema italiano in bianco e nero, e pensiamo a Rossellini e De Sica, che segnò uno dei più significativi e alti culmini della nostra cinematografia.

Ilare senza trivialità, accorato ma non sdolcinato, Il cappello di carta narra la storia di una famiglia di muratori di origini siciliane trapiantata a Roma all'epoca della costruzione del quartiere EUR; tra miserie quotidiane, bombardamenti, amori giovanili e rimpianti da emigranti, la vicenda si dipana in brevi, e talvolta brevissimi flash, da cui emergono vizi, virtù, strambe fissazioni, piccole ripicche, ma soprattutto la profonda umanità di questi poveracci, umanità che il secondo tempo, più disteso ma al tempo stesso più intenso del primo, svelerà sin nelle sue pieghe più riposte, inattese e pericolose (salvare un neonato ebreo sotto gli occhi dei tedeschi), in un climax partecipativo che non ha mancato di coinvolgere appieno il numeroso pubblico.

Tuccio Musumeci, nei panni del nonno Carlo, amato piccolo despota della famiglia, ha delineato un personaggio nostalgico, un po' maniacale, con una comicità dimessa che sembrava emergere con estrema naturalezza dal testo, comicità priva delle forzature strappaapplausi che vengono propinate, e quasi sempre a sproposito, da tanti attori siciliani. Calmo e misurato, ha interagito in perfetta sincronia, senza protagonismi inutili, col resto della compagnia, dove emergevano l'ottimo Massimo Leggio, nei panni del figlio Leone, e l'intensa Olivia Spigarelli in quelli della nuora Camilla.

Bravi anche i giovani Laura Tornambene (Bianca) e Claudio Musumeci (Candido), come anche Josefia Forlì (Remo), e Loredana Marino, che ha interpretato Anna, anch'essa figlia di Carlo, tratteggiando con buon mestiere il ruolo della vedova-figlia di famiglia, ansiosa di rimaritarsi ma tremebonda all'idea che il suo desiderio possa realizzarsi.

La regia di Giuseppe Romano ha insistito giustamente sul carattere realistico-minimalista dell'opera, guidando una recitazione quanto mai sciolta e libera da preziosismi, pur se sempre tesa alla correttezza formale. Belle le scene di Riccardo Perricone e i costumi della Sorelle Rinaldi, che hanno potenziato l'idea registica di fondo della tranche de vie, rendendo lo spettacolo ben omogeneo e assolutamente congruente e funzionale in ogni sua parte.

Giuliana Cutore

29/10/2012

Le foto del servizio sono di Giuseppe Messina.