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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Modernità di Carmen

Il capolavoro di Bizet inaugura la stagione lirica del Bellini di Catania

Il giudizio entusiastico di Friedrich Nietzsche sulla Carmen di Bizet, da leggere soprattutto in opposizione a Wagner, ha per molto tempo ipertrofizzato la mediterraneità dell'opera, ponendo l'accento in maniera quasi assoluta sulla sensualità della sigaraia, trascurando di converso certi elementi che, ben presenti nel libretto di Meilhac e Halévy, possono risultare utili, insieme ad alcuni particolari nascosti tra le pieghe della Storia, per meglio inquadrare una figura femminile che ormai da parecchi anni, e giustamente, viene vista da registi e cantanti in stretta connessione con uno scandalo eterno (spesso larvatamente giustificato da individui in preda a rigurgiti reazionari di stampo religioso o politico) che va sotto il nome di femminicidio, crimine, alla stregua della violenza carnale, basato sull'implicita presunzione maschile di considerare la donna come un oggetto di proprietà (più o meno come un abito o un orologio) che può essere tranquillamente usato, abusato, e magari distrutto quando si rifiuta di assolvere alla propria funzione.

Se considerare Carmen come frutto della fascinazione che la Francia dell'Ottocento nutriva per la Spagna, punto di incontro tra le suggestioni arabe, ebraiche e l'Occidente, ha senz'altro una sua ragion d'essere, non va tuttavia dimenticato che proprio la Francia – ben nota per le vicende di una rivoluzione che, insieme a quella americana, segnò lo spartiacque tra l'ancien règime e il mondo moderno – generò in sé il primo germe di quel movimento di rivendicazione femminile che, passando per le suffragette, avrebbe condotto le donne a ottenere non solo il diritto di voto, ma soprattutto il riconoscimento della loro dignità civile e della loro piena parità con l'uomo. Se ogni libro di storia cita la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, sono pochi i manuali che ricordano che è esistita anche una Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, scritta da un'attivista francese, della quale ci rimangono anche opere teatrali contro la schiavitù dei negri, di nome Olympe de Gouges, una donna dalla vita avventurosa e per molti versi simile a Carmen (dopo un matrimonio finito ben presto rifiutò per tutta la vita di sposarsi in nome della propria libertà), che come la sigaraia morì, non pugnalata ma sulla ghigliottina, per le proprie idee libertarie (sembra che avesse attaccato il Comitato di Salute Pubblica e si fosse opposta alla condanna a morte di Luigi XVI) e fu vittima di una damnatio memoriae non proprio edificante che per molto tempo l'ha relegata quasi al ruolo di una prostituta per il suo stile di vita troppo libero per la mentalità del suo tempo… e non solo. Vista in questa prospettiva, Carmen acquista uno spessore ideologico che impone un ripensamento e un approfondimento non solo da un punto di vista registico generale, ma anche del personaggio eponimo e del deuteragonista Don Josè, che di fatto viene a perdere molte delle sue connotazioni sentimentali, di eroe sfortunato vittima di una maliarda, avvicinandosi di converso a un prepotente con una visione distorta dell'amore, visione dominata dall'idea del possesso e priva di qualunque rispetto per la libertà dell'amata.

L'edizione del capolavoro di Bizet che ha inaugurato il 25 febbraio (con repliche sino al 3 marzo) la stagione lirica 2020 del Bellini di Catania si è mossa su questa duplice prospettiva, cercando da un lato di ricreare l'atmosfera mediterranea canonica, ma dall'altro ponendo l'accento sulla protagonista in un'ottica più ampia, che la proponesse al pubblico non tanto come femme fatale, caratterizzata da una sensualità ferina e irresistibile, ma piuttosto come una donna eminentemente conscia del proprio diritto alla libertà e decisa a difenderlo ad ogni costo. L'idea di partenza di Luca Verdone, che ha curato la regia e le scene (riprese da un progetto di Virginia Vianello) è stata innanzitutto quella di una semplificazione dell'impianto scenico generale al fine di non sovrapporlo alla partitura e al libretto con effetti distraenti – purtroppo oggi molto ricercati da registi blasonatissimi e richiestissimi che ingombrano il palcoscenico di figuranti inutili e di cervellotici macchinari semoventi che di fatto impediscono la fruizione della musica, del canto e soprattutto delle parole – e di una cura dei movimenti scenici in funzione di una migliore e più incisiva tipizzazione dei personaggi. I fondali, molto stilizzati, dai colori caldi dove predominavano sfumature aranciate e varie gradazioni di rosso, hanno ben sottolineato sia la canonica solarità nietzschiana sia l'ambientazione mediterranea (magari col consueto omaggio implicito alla Sicilia, anch'essa tristemente nota per i suoi trascorsi non proprio democratici nei confronti delle donne!), sia l'esplosione delle passioni dei personaggi, evitando però la secca dello stereotipo della sensualità dilagante di Carmen, caratterizzata invece, almeno nei momenti più significativi, da un irrigidirsi ostentato dinanzi alla furia di Don José. Unico neo dell'allestimento di Verdone è stato, almeno nel primo atto, una disposizione dei fondali che restringeva troppo il palcoscenico, non sfruttandone adeguatamente la profondità, e generando di conseguenza una notevole staticità delle masse corali. Di grande impatto visivo invece la scenografia del quarto atto, mentre il programmatico uso di un'attrezzeria quanto mai scarna contribuiva a focalizzare l'attenzione sui personaggi e sui bei costumi realizzati da Alberto Spiazzi; un improbabile Pulcinella interagente coi bambini prima della corrida era forse l'unico elemento distraente e superfluo di una regia che si è comunque distinta per essenzialità e intima coerenza.

Sul versante musicale, l'orchestra del Bellini, guidata dal neo direttore artistico Fabrizio Maria Carminati, sembra aver ritrovato uno slancio d'altri tempi, che le ha consentito di riacquistare una coesione e un'intesa che si sono tradotte in estremo nitore e morbidezza di suono, grande attenzione alle sfumature coloristiche della partitura e notevole proporzione tra buca e palcoscenico. La direzione di Carminati, dai tempi serrati ma mai incalzanti, si è distinta per precisione negli attacchi, per l'impegno sull'agogica e sulla dinamica della partitura, con una ricerca fonica e timbrica che si è tradotta in una notevole e coinvolgente espressività dell'orchestra, ma soprattutto in grande attenzione per gli interventi solistici e per un superiore equilibrio dei tempi, che ha permesso grandi squarci lirici il cui culmine è stato la perfetta esecuzione dell'intermezzo tra il secondo e il terzo atto, dove davvero l'orchestra, dopo l'introduzione del flauto, è riuscita ad aprirsi come un fiore, con quella gradualità lenta e continua che sola può rendere il fascino di una notte stellata.

Anche il coro, istruito come sempre da Luigi Petrozziello, ha lavorato in perfetta sintonia con l'orchestra e i solisti, dimostrando una continua crescita per quanto riguarda l'agogica e l'espressività vocale; un plauso particolare va alle voci femminili per il coro delle sigaraie del primo atto. Il Coro di Voci bianche interscolastico “V. Bellini”, diretto con competenza e professionalità da Daniela Giambra, ha eseguito con vivacità e precisone i suoi interventi, evidenziando anche una certa disinvoltura scenica nei movimenti d'insieme, coordinati da Giusy Vittorino, che ha curato l'aspetto coreutico di tutto l'allestimento.

Sul fronte solistico, non si può non sottolineare l'oculata scelta dei comprimari, tutti di ottimo livello: discreta la prova del baritono Claudio Mannino nel ruolo di Morales, mentre il basso Gaetano Triscari, Zuniga, ha evidenziato una voce robusta e dalla buona timbratura; il soprano Anna Delfino e il mezzosoprano Albane Carrère, rispettivamente Frasquita e Mercédès, si sono disimpegnati egregiamente sia nel secondo che nel terzo atto, come anche i tenori Saverio Pugliese (Le Remendado) e Filippo Lunetta (Le Dancaire), che hanno mostrato vocalità sicura, buona tecnica e una notevole disinvoltura scenica; a loro ulteriore merito va ascritta l'ottima esecuzione del bellissimo ma complesso e insidioso quintetto “Nous avons en tête une affaire!”. Il baritono Simone Alberghini non è stato certamente un Escamillo di riferimento, pur se dotato di padronanza scenica e di una discreta tecnica: l'estensione piuttosto limitata della sua voce non gli ha permesso di cantare al meglio la celebre aria del toreador, la cui esecuzione è risultata a tratti insicura e un po' opaca. Il soprano Daniela Schillaci, nel ruolo di Micaela, ha purtroppo confermato quelle manchevolezze nel fraseggio che sembrano essere una costante delle sue prestazioni, unite a una propensione a forzare nella zona acuta: la celebre aria del terzo atto “Je dis que rien ne m'épouvante”, pur se cantata con chiara dizione e punteggiata qua e là da buoni filati, non è riuscita né a rendere tutta la dolcezza del personaggio né a esprimere l'intenso lirismo che le lunghe arcate melodiche avrebbero dovuto sprigionare.

Il tenore Gaston Rivero, Don José, cantante dotato di una robusta zona media e di acuti molto ben controllati, sicuramente cresciuto nel corso dell'opera dall'incerto esordio del primo duetto con Micaela, ha conferito scenicamente al suo personaggio caratteristiche ben consone al taglio registico voluto da Verdone: abbandonate le connotazioni romantiche dell'amante sfortunato della maliarda da imputare a tante classiche rappresentazioni da figurine Liebig, Rivero ha posto l'accento più sull'aspetto aggressivo e prepotente di Don Josè, tenendosi però ben al riparo da cedimenti al verismo da Cavalleria, evitando le platealità del classico tenore all'italiana e lasciando emergere invece tutto il conflitto dell'uomo che lentamente passa da un'esistenza ordinata al turbine di una follia amorosa dove ogni residuo di ragione e rispetto per la donna scompare per lasciare il posto al più brutale e bieco degli assassini. Elegante nel fraseggio, capace di buone mezze-voci, ha riscosso entusiastici applausi per “La fleur que tu m'avais jetée”, un altro di quei momenti di intenso lirismo che solo una perfetta sinergia tra buca e palcoscenico può esaltare al meglio.

Il soprano moscovita Anastasia Boldyreva è stata una Carmen la cui connotazione scenica principale non era, in linea con l'idea generale di fondo, il tratto da femme fatale, ma quello di una donna indipendente, libera, che si guadagna da vivere col proprio lavoro (magari arrotondando col contrabbando), che conosce bene gli uomini, le loro debolezze e non ha paura dell'aggressività che possono sprigionare: disinvolta sul palcoscenico, non ha caricato morbosamente la sensualità di Carmen, rispettandone la spontaneità naturale, quasi panica (ben diversa dalla carica erotica della maliarda decadente), ma nello stesso tempo mettendo in rilievo al momento opportuno la durezza di fondo della donna che pretende a buon diritto di autodeterminarsi in un mondo dominato dall'ottica maschile. Sul piano vocale, dopo un'esecuzione piuttosto anodina della celebre Habanera (forse dovuta all'emozione del debutto) la Boldyreva è cresciuta in modo esponenziale sin dalla Séguédille “Près des remparts de Séville”, sfruttando egregiamente una zona media dal timbro molto interessante e dei gravi quasi da contralto. Dotata di un fraseggio elegante e accurato, ha reso al meglio la lugubre scena delle carte, rendendo quasi palpabile il senso di morte che circonda la sigaraia; a suo merito, come già detto per Gaston Rivero, sta l'aver evitato qualunque deriva veristica del personaggio, in particolare nei recitativi, mantenendosi anzi sempre nell'ambito anche e soprattutto vocale di una resa stilizzata e composta nel rispetto della tradizione ottocentesca.

Teatro gremito come non lo si vedeva da tempo da un pubblico davvero soddisfatto, che ha prodigato lunghi ed entusiastici applausi a tutto il cast, al regista Verdone e al direttore Carminati.

Giuliana Cutore

26/2/2020
Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.