RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Senza montagne

Nata nel 1892, un anno prima della prematura morte del suo autore, La Wally di Catalani è una di quelle opere che esprimono bene lo spirito del proprio tempo: riproduzione di una couleur locale (qui le Alpi tirolesi) intesa non come bozzettismo, ma veicolo drammaturgico; un wagnerismo ormai metabolizzato dove spetta all'orchestra, e non al canto, ritrarre i grandi nuclei psicologici; echi strutturali, più che musicali, dell'opéra lyrique francese (il Ländler del secondo atto ha funzione drammatico-descrittiva non troppo dissimile dal valzer nel Faust di Gounod); una scrittura vocale che fa i conti giocoforza con il verismo (anche se l'estetica di Catalani non sarebbe quella), con melodie memorabili, ma di corto respiro, alternate a un'intensa enfasi declamatoria. Infine, una protagonista contraddittoria: modanata nella dimensione del puro soprano lirico nell'aria che ha fatto la fortuna dell'opera (Ebben? Ne andrò lontana), ma di “taglia” assai più drammatica per tutto il resto della partitura. Nella memoria collettiva, comunque, resta legata all'opulente morbidezza e alla florida femminilità della voce di Renata Tebaldi.

A Bolzano – città che, per posizione geografica, si presterebbe a una Wally del tutto “filologica” – è andata in scena, invece, una nuova produzione di quest'opera che sconfessa, e ribalta, ogni punto sopra citato: di montagne non c'è neppure l'ombra nell'allestimento, tutto stilizzato e concettuale, della regista Nicola Raab e della scenografa Mirella Weingarten; wagnerismi, francesismi e verismi vengono risucchiati, nella concertazione di Arvo Volmer, da un generoso substrato sinfonico che omogeneizza le componenti; e l'inglese Charlotte-Anne Shipley, sia per naturalia vocali sia per adesione al disegno registico, è una protagonista spigolosa e mascolina al punto da apparire un'anti-Tebaldi. Sicché (e glissando sull'ultimo aspetto, ché di Tebaldi ce n'è una sola) scatta la domanda: Catalani e il suo Zeitgeist sono ormai così datati da necessitare una radicale rilettura? Oppure La Wally ha assunto, dopo svariati decenni di popolarità e molti altri di oblio, quello status di classico che consente le più audaci, e solo apparentemente infedeli, riproposte?

La produzione bolzanina non risolve la questione, né forse si pone la domanda. È “soltanto” uno spettacolo ben fatto e coerente: drammaturgicamente partigiano nella sua lettura sbilanciata sul versante gender e femminista; volto a recuperare certi temi psicanalitici e talune patologiche durezze della protagonista, ben presenti nel romanzo di Wilhelmine von Illern, che l'adattamento librettistico di Illica ha poi lasciato sottotraccia; di ambientazione moderna ma del tutto antinaturalistica, a cominciare da un coro (l'ottimo Ensemble Vocale Continuum diretto da Luigi Azzolini) statico e oratoriale pure nelle scene di festa e di baldoria; e che forse non rende giustizia al Catalani “paesaggista”, portando però lo spettatore in una sorta di paesaggio dell'anima, dove anche la letale valanga conclusiva è solo uno schianto dell'inconscio. In pratica, due muri mobili: dove il bianco del primo restituisce le distese innevate, mentre gole e strettoie alpine vengono evocate attraverso l'incessante spostamento dell'una e dell'altra parete.

La Shipley è una Wally ideale per il ritratto fattone dalla Raab: da un lato, la relativa difficoltà del suo strumento a flettersi alle effusioni liriche qui appare non un limite, ma una precisa scelta drammaturgico-vocale; dall'altro, il timbro un po' arido sottolinea la scorza ruvida e frigida insufflata dalla regista al personaggio. Biancovestita come una Madonna fieramente verginale (il grido «Giuseppe!», mentre invoca il suo amante platonico travolto dalla valanga, non è mai apparso così freudiano), questa Wally approda poi a una sotterranea ambiguità nel rapporto con Walter: l'adolescente suonatore di cetra che Illica e Catalani prevedono soprano en travesti , ma Francesca Sorteni – un lirico-leggero d'impeccabile musicalità nei suoi appiombi paravirtuosistici – incarna come un'equivoca ragazza in abiti maschili. E anche questo apre una finestra nuova sui personaggi, anziché ricondurli a una dialettica classicamente ottocentesca (l'eroina e il suo casto amico del cuore) ormai fuori tempo massimo nello scapigliato Catalani.

Meno a loro agio Ferdinand von Bothmer – eclettico tenore convincente in altri repertori, ma qui spesso sulle difensive e costretto a forzare – e Ashley David Prewett, baritono tenoreggiante al punto di pregiudicare emissione e intonazione. Negli altri più brevi ma non trascurabili ruoli, Alessandro Guerzoni è debitamente plastico e sanguigno nei panni dell'odioso padre di Wally, mentre l'Afra di Francesca Sartorato risulta meno a fuoco e il Pedone di Enrico Marchesini appare tanto caricato scenicamente (un controcanto gay della protagonista, nella visione registica della Raab?) quanto sbiadito vocalmente. Tutti assemblati dalla bacchetta di Volmer, che, ottimamente corrisposto dall'Orchestra Haydn di Bolzano e Trento (corni in primo piano), sottolinea la natura sinfonico-vocale di questa partitura: il ventaglio agogico, le pause, la dialettica dei cambiamenti di tempo sembrano contare più dei grandi primi piani canori, ma con questo direttore l'orchestra “canta” sempre.

Paolo Patrizi

27/3/2019

Le foto del servizio sono di Alessia Santambrogio.