RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

La struggente malinconia

di un giardino in primavera

Capita raramente di riuscire a trovare nella messinscena di un capolavoro del teatro moderno non solo elementi di novità, ma anche rispetto del copione, organicità e coerenza di sviluppo e soprattutto attenzione per la sotterranea coesistenza di tragico e comico che caratterizza la pièce; tuttavia, è proprio questo il caso dell'allestimento de Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov, in scena allo Stabile di Catania dal 18 al 23 febbraio, una produzione Compagnia Orsini, Accademia Perduta Romagna Teatri, Teatro Stabile del Veneto, TPE-Teatro Piemonte Europa, in collaborazione con Compagnia Teatropersona e Triennale Teatro dell'Arte, per la regia di Alessandro Serra, che ha curato anche le scene, le luci, i costumi e l'impianto drammaturgico generale, arricchito da simboliche proiezioni che ben sottolineavano l'epoca di sconvolgimenti storici ma soprattutto ideologici in cui è ambientato il dramma.

Immerso nelle inquietudini del primo Novecento, Il giardino dei ciliegi, rappresentato per la prima volta nel gennaio del 1904 al Teatro d'Arte di Mosca, narra com'è noto le vicende di un'aristocratica famiglia russa ormai in rovina e segnata da terribili lutti: simbolo del passato splendore un magnifico giardino, ormai ipotecato e destinato a cadere in mano ai creditori, in uno spietato passaggio mercantilistico che dal bello gratuito e inutile genererà la prosaicità di una vantaggiosa lottizzazione per case di villeggiatura. Su questo ribaltamento di prospettiva si innestano sia l'incredula e inadeguata reazione della protagonista Ljubov' e del fratello di lei Gaiev, di fatto un inetto preda delle più fantasmatiche illusioni, sia soprattutto il ruolo fondamentale dell'arricchito Lopachin, discendente dai servi della casa patrizia, che propone alla donna un lucroso affare che salverà la posizione finanziaria della famiglia ma non il giardino, che verrà appunto lottizzato e trasformato in residenze per i nuovi ricchi russi, affare che la donna definisce, aristocraticamente, volgare. Il giardino alla fine verrà acquistato all'asta proprio da Lopachin, segnando così il definitivo tramonto di un'epoca che a breve verrà irreparabilmente travolta dalla Rivoluzione.

Sulla vicenda fondamentale si snodano una serie di personaggi secondari, approfondimento ed eviscerazione della dicotomia aristocrazia-nuovi ricchi sulla quale è costruita la pièce: ed è su questi personaggi che Serra ha lavorato moltissimo, utilizzandoli per rappresentare plasticamente l'originario impianto comico voluto da Cechov, senza però dimenticare gli elementi di tragicità inseriti da Stanislavski che volle dirigere Il giardino dei ciliegi essenzialmente come una tragedia. Da qui un'istrionicità quasi felliniana di fondo, dettata da movimenti scenici talvolta volutamente esagitati, scandita a tratti dagli attori in pose da dagherrotipo, che ben evidenziavano la staticità dell'aristocrazia russa opposta alla modernità dilagante del primo Novecento. L'attrezzeria, quanto mai scarna ma icastica e pregnante, sottolineava il clima di abbandono psichico e di ineluttabilità della vicenda, e trovava la sua più riuscita espressione nella doppia ruota proiettata sul fondale tra la prima e la seconda parte dello spettacolo (rappresentato senza interruzione), simbolo dell'irruzione della modernità e del predominio della società mercantilistica (forse citazione implicita di Tempi moderni) e nel finale, quando le sedie da giardino, delicate e traforate, leziosamente fragili, vengono accatastate le une sulle altre come rottami e sollevate da un rozzo gancio, conferendo a tutta la scena l'immane tristezza del crepuscolo di un mondo.

Le musiche seguitavano e sottolineavano la medesima ambivalenza, con valzer ottocenteschi nella scena del ballo, per divenire invece taglienti e icastiche nei momenti di scontro tra i due mondi, mentre i costumi, fedeli all'epoca ma improntati a una severità di fondo (colpiva la simbolicità del total black della scena del ballo!), realizzavano perfettamente la decadenza dell'aristocrazia e l'opulenza del nuovo ricco Lopachin.

Di prim'ordine tutta la compagnia, la cui recitazione si è mossa tra naturalismo e straniamento, evidenziando il secondo nella gestualità talvolta parossistica delle scene mute, o in quella statuaria e rallentata dei momenti più intensi e drammatici (come l'abbraccio finale tra Liubov' e Gaiev), e riservando invece una dimessa quotidianità al personaggio del servo Firs, reliquia vivente del tempo andato, recitato in maniera magistrale da Bruno Stori; Valentina Sperli ha reso con grande professionalità l'aspetto svagato e programmaticamente ingenuo di Liubov', mentre Leonardo Capuano ha tratteggiato un Lopachin sicuro di sé ma a un tempo sinceramente partecipe delle sventure della famiglia; bene anche Fabio Monti, il cui Gaiev è riuscito comico ma non macchiettistico, mentre Felice Montervino ha incarnato l'eterno studente Trofimov evidenziandone i rapporti di non lontana parentela con gli omologhi dostoievskiani di Delitto e castigo e de I demoni.

Completavano l'eccellente cast Arianna Aloi, Andrea Bartolomeo, Marta Cortellazzo Wiel, Massimiliano Donato, Chiara Michelini, Massimiliano Poli e Petra Valentini, tutti attori di buon livello che, come i protagonisti, si sono distinti soprattutto per la chiarezza della dizione, che ha permesso al folto pubblico presente in sala la sera del 18 di non perdere nemmeno una battuta.

Applausi entusiasti a scena aperta per tutta la compagnia.

Giuliana Cutore

20/2/2020