RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Dovunque si vuol esser primi: così va il mondo

Fa' pure l'arrogante ma solo nel tuo campo

Quale Clavigo? Quello che Johann Wolfgang Goethe licenziava nel 1774 (un anno prima c'era stato il conclamato Werther) riscrivendo, in non più di una settimana, la vera storia della sorella del drammaturgo Beaumarchais (Louise nella realtà, Marie nella pièce), corteggiata ed amata da Clavigo Fajardo, archivista del re di Spagna, che lei riama alla follia perciò muore di crepacuore quando lo sventurato l'abbandona per amore di carriera? O magari il Clavigo “storico”, imponente, prepotentemente corale e disperatamente lirico di Roland Petit che, nel 1999, all'Opéra di Parigi ne consegnava un'indimenticabile versione danzata?

Né l'uno, né l'altro ma altro ancora.

“È tutto Goethe”, assicura a metà tra perplesso e beffardo l'attore Moritz Grove che impersona Carlos nella versione del Deutsches Theater di Berlino, in “prima” assoluta al Festival di Salisburgo prima di tornare alla “casa madre” tedesca in novembre.

“È tutto Goethe”. Niente di più sagacemente insincero, lo sa bene la Compagnia, in testa il regista, Stephan Kimmig e la dramaturg Sonja Anders: dell'originale goethiano poco resta e assai poco resiste. E scientemente. È un Clavigo “nach” Goethe, “da” Goethe, lo dice il titolo stesso, dunque niente piagnistei, direbbe qualcuno.

Epperò, absit iniuria verbis, il Clavigo del demiurgo di Werther e Faust, è tuttora un gran bel pezzo di teatro. Geregelter Manier, manierato quanto si vuole, “imparruccato” forse, ma non si può vedere meno che attuale se non atemporale la débâcle che dilania Clavigo – “colpevole” ma tuttaltro che villain giacché dell'abbandono dell'amata soffre anche lui e non poco – tra l'amore puro e ardente di Marie e la brillante carriera sempre sul punto di spiccare il volo e sempre compromessa da quell'amore “ingombrante”.

Così come riconoscibili se non familiari sono le argomentazioni (vessazioni?) dell'amico di Clavigo, Carlos, il quale, venuto a conoscenza della riconciliazione di Clavigo con Marie – e con il fratello di lei specialmente che, per vendicare l'onta subita dalla sorella, avrebbe diffuso a Corte un biglietto in cui Clavigo dichiarava d'aver commesso un'atrocità – gli prospetta due alternative. Restare gioiosamente con Marie ma rimanere sempre e solo archivista del re rinunciando alle sommità del potere oppure lasciarla una seconda volta ma candidarsi finalmente alle più alte sfere della politica.

Che fare, allora, se non identificarsi e angustiarsi dinanzi a contrasti così evergreen e così dannatamente brucianti, in tutte le storie e in tutte le geografie possibili e impossibili? Ecco innocenza e colpevolezza, carriera e matrimonio, promessa e tradimento, genio e mediocrità. Quasi superfluo, forse, è dire quanto venato di autobiografia fosse Clavigo, quanto Goethe stesso, attraverso di lui, rafforzasse il suo ego e quanto lo perdonasse, difendendo così, neppure tanto implicitamente, i “sacrosanti” diritti dell'artista.

Ebbene di tutto ciò non resta che il pretesto.

Attori talentuosissimi, si badi, quelli del Deutsches Theater berlinese – Susanne Wolff nel title role, il già citato Grove nei panni di Carlos, Marcel Kohler (Marie Beaumarchais), Kathleen Morgeneyer (Beaumarchais), Franziska Machens (Buenco) – poliedrici, “comunicattivi” quanto basta e in taluni casi - la Wolff , per esempio – dotati di presenza scenica e bellezza in parti uguali e convincenti.

Tuttavia, un po' per celia e un po' per non morir, la “vecchia” storia di Clavigo finisce in mano a un pugno di circensi. Send in the clowns, dice la canzone. E loro arrivano, anzi, alzano il sipario: il secondo sipario è, nemmeno a dirlo, un tendone da circo azzurro cielo (scene di Eva-Maria Bauer) “spicchiato” d'altri colori. Naso rosso d'ordinanza per tutti, da principio, naso a palloncino in cui è utopia introdurvi il dito per scaccolarsi ma loro ci provano e con metodo. Pagliacci, nani (in realtà solo donne minute) e ballerine – ma ad esibire un tutù, all'inizio, è lui: calzettoni neri sotto il tulle bianco e sopra, camicia e cravatta.

E a proposito di inversione di genere – ed è più per “condanna” a stupire che per devoto ritorno alle origini del téatron in cui erano uomini a recitare parti femminili o per alludere ai miti dell'Ottocento come Sarah Bernhardt che vestì il ruolo d'Amleto – nel Clavigo al Landestheater di Festival di Salisburgo è una lei – la Wolff, biondissima e piena di appeal – ad interpretare l'archivista reale. Per contro, a un alto, dinoccolato, intenso Marcel Kohler tocca la parte di Marie; uguale “inversione” per la Morgeneyer nei panni del vendicativo Beaumarchais ma rammenta piuttosto il cherubino delle Nozze di Figaro.

Ora vestita d'argento e con dimensioni da donna cannone, ora in abito bleu elettrico con gorgiera è Susanne-Clavigo mentre Marcel-Marie è in calzoni di pelle e canotta (costumi di Johanna Pfau), sguardo allunato al tragico epilogo – che si consuma davanti allo specchio di un camerino di teatro – ma ,in principio delirante “narratrice” del suo grande amore, con versacci e loop al microfono (“attore” muto ma parte integrante del cast).

Li vedi poi mano nella mano, occhi negli occhi, ora innamorati e rapiti, ora collerici e infelici – spesso su video (Julian Krubasik, Lambert Strehlke) – e ti sembrano una credibile coppia grunge così com'è ma non basta, perché devi sempre “convertire” l'immagine. Lui è lei e lei è lui.

E se il loop si addice a Goethe, il Deutsches Theater ne mette in campo almeno due, tanto catturanti e chissà quanto appropriati. Da un canto (è il caso di dirlo) quel Jesus' blood never failed me yet che Gavin Bryars, nei primi Anni Settanta, sentì cantare ad un senzatetto di Waterloo Station a Londra; dall'altro, uno stralcio di All that I am, canzone di Kit Ream, il cui incipit, loop nel loop, recita: “I've not said I'm better/ And I've not said I'm worse/ But I have an idea concerning the universe” (“Non ho detto d'essere il migliore, non ho detto d'essere il peggiore ma ho una mia idea sull'universo” ma è chiaro che la forza espressiva sta nell'assonanza che va irrimediabilmente perduta in traduzione).

A un passo dalla fine, Clavigo-Susanne vive un'inversione dell'inversione: in sottogonna con cerchio e prodigiosamente inginocchiata, lei-lui ridiventa lei e si lancia in un rituale monologo-giaculatoria, cinico e nichilista: I'm a speechwoman, I'm a flexible woman, I'm a know nothing woman... Poi, s'imbarca in una mongolfiera rovesciata, quasi fosse il Carro del Sole di Medea, e intanto la musica officia una sorta di singspiel napoletano o, se volete, una tedesca tammurriata in odore di Nuova Compagnia di Canto Popolare.

Applausi alla fine? Eccome. Perché se Roma è la capitale del mondo (Goethe), in materia di regia (opera e prosa) il Festival di Salisburgo è terra franca di trasgressioni a oltranza. E in questo, non si può dire che il Deutsches Theater di Berlino non abbia osservato alla lettera il diktat di Goethe: “Dovunque si vuol esser primi: così va il mondo. Fa' pure l'arrogante ma solo nel tuo campo”.

Carmelita Celi

7/8/2015