RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

C'è concerto e concerto

L'etimologia della parola concerto è discussa: deriva da cum-certare, combattere, gareggiare con; oppure da conserere, intrecciare, annodare? Due “entità” possono o scontrarsi (prima ipotesi) o amalgamarsi tra loro (seconda ipotesi). Non vi è una linea di demarcazione netta, e i compositori hanno scritto in entrambi i modi, sia fondendo gli strumenti, sia opponendoli – un gruppo ristretto (il “concertino”) contro il resto, il “grosso” dell'orchestra (donde il nome di “concerto grosso”, tipico del Barocco), o un solo strumento in dialogo con(tro) tutti gli altri (il concerto solistico), forma preponderante, se non unica, del Classicismo e del Romanticismo. Il Novecento ha salutato poi il ritorno del concerto barocco, dalle rievocazioni in stile sei-settecentesco “renouato” dello Stravinskij neoclassico (Concerto “Dumbarton oaks”) alle sperimentazioni allucinate di Schnittke (Sei Concerti grossi). Karl Jenkins, poi, con Palladio, del 1996, ha riportato in vita perfino la sonorità settecentesca alla Vivaldi o alla Marcello.

Il quindicesimo appuntamento della stagione dell'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN), il 3 e 4 marzo 2016, ha riassunto in tre brani le due forme principali del concerto, barocco e solistico. Con riferimento al 4 marzo, la serata all'auditorium Arturo Toscanini della Rai di Torino si è aperta con il Quarto Concerto per pianoforte e orchestra Op. 58 di Ludwig van Beethoven, del 1807. Solista: Nikolaj Demidenko; direttore: Juraj Valcuha. Il Quarto è esemplificazione di quella tendenza meno conosciuta di Beethoven a snellire, a farsi olimpico, astratto, ad esprimere una gaiezza al di sopra della dimensione terrena. Einstein, dell'ultimo Concerto per pianoforte di Mozart (K 595), scriveva che evoca la «serenità di bambini innocenti che giochino nei Campi Elisi». Qualcosa di quella serenità migra anche nell'Op. 58 di Beethoven, che, rinunciando a sonorità rutilanti, regala un'opera meno appariscente (rispetto al Terzo o al Quinto Concerto, per esempio), ma non per questo meno elaborata e meno innovativa. Inizia quasi per caso: il pianista appoggia le mani sulla tastiera, un accordo di sol maggiore, e lo ribatte, come cercando un tema. Ma il tema già respira sotto le sue dita (un tema imparentato con quello della Quinta Sinfonia Op. 67, cronologicamente molto vicina, se non contemporanea). Dietro di lui l'orchestra tace, prendendo dopo poco le mosse da questo tema e procedendo con l'esposizione bitematica della forma-sonata. Un attacco così originale lo aveva sperimentato Mozart nel Concerto “Jeunehomme” (K 271), ma non spingendosi alla soluzione radicale di ricorrere al pianoforte solo in apertura. Un Andante con moto contrappone poi gli archi, aggressivi e scuri, al solista, che si eleva con un canto di purezza e semplicità; man mano gli archi perdono forza, si lasciano conquistare dal solista: Liszt vi vedeva «Orfeo che ammansisce le fiere». Infine, un Rondò, in cui finalmente compaiono (ma con parsimonia) trombe e timpani. Brio garbato, arguzia e simpatia concludono il Concerto.

Valcuha imposta un metronomo che accentua il moderato più che l'Allegro, per il primo tempo, e anche nell'ultimo, il suo Vivace non è mai senza freno. La sua direzione permette di cogliere agevolmente la raffinata costruzione del Concerto: i pizzicati ai violoncelli, per esempio, che riprendono il tema a note ribattute staccate del pianoforte, sono perfettamente intelligibili. È una direzione trasparente, non priva di spirito critico e di intelligenza.

Demidenko sfoggia un tocco deciso e distaccato, più adatto al Bach tastieristico. Si tratta, qui, ripetiamo, di un Beethoven anomalo, che rifugge da effetti grandiosi, e richiede una raffinatezza interpretativa superiore. Spesso il pianoforte ricama con arpeggi e passaggi di velocità gli sviluppi dei temi, affidati all'orchestra, per cui un eccessivo coinvolgimento sarebbe forse fuori luogo. Tuttavia, è un attimo scivolare nella freddezza, che Demidenko talvolta rasenta, pur senza adottarla a cifra stilistica costante. Qualche perplessità hanno destato le cadenze al primo e terzo movimento. Beethoven scrisse le cadenze di tutti i suoi Concerti; Demidenko, presentando cadenze forse sue, sovrappone uno stile che si percepisce estraneo alla temperie espressiva beethoveniana, indugiando troppo in una vigoria che ricorda Rachmaninov o Prokof'ev (autori, fra gli altri, di cui Demidenko è riconosciuto solido interprete), con escursioni nella regione sovracuta della tastiera, che strizzano l'occhio a Liszt. Sono tuttavia cadenze preparate con finezza, che sanno sintetizzare i temi sviluppati nel corso del Concerto infiorettandoli di agilità non gratuite, nello spirito e nella funzione propri di una cadenza da manuale.

Se il Concerto Op. 58 di Beethoven esemplifica il concerto solistico, il Concert Românesc di György Ligeti, del 1951, è l'esempio dello stilema barocco, cui si accennava prima, riadattato in pieno Novecento. L'omaggio alla Romania e alla sua tradizione musicale da parte dell'ungherese Ligeti (che negli stessi anni di questo concerto conobbe Bartók) è una godibilissima composizione in quattro movimenti, sorta di collage di motivi popolari che rifugge dallo sperimentalismo tipico di Ligeti (solo nel terzo movimento affiorano per poco i clusters e le sonorità rarefatte, oggetto di indagine in composizioni più tarde come Atmospères, del 1961), per concentrarsi sul piacere delle melodie presentate da tutta l'orchestra, tra momenti più meditativi e danze furiose. Il futuro dissacratore del Poema sinfonico per 100 metronomi, il futuro compositore di musica elettronica a fianco di Stockhausen si concede anche qualche burla: nel finale, il primo violino, come impazzito, continua a gorgheggiare, nonostante l'orchestra segnali ripetutamente con degli accordi che il pezzo… è finito! (Qualcosa di simile è già presente nel Trio Op. 11 di Beethoven).

Valcuha, che per questo brano allarga l'orchestra portandola a 16 violini primi, pare trovarsi più a suo agio. La conduzione è snella; un sorprendente contrasto fra il primo e il secondo movimento, un'introduzione lenta e pacata contro un furiant da sagra paesana dove si fa avanti il primo violino, fa risaltare le caratteristiche di entrambi i brani, soprattutto il brio del secondo. Nel terzo, il cui passaggio iniziale richiama per poco l' incipit ai violoncelli della Settima di Bruckner, mirabili e diafani i tremoli degli archi, in punta d'archetto eppure abbastanza sgranati da essere percepibili quasi singolarmente.

Esecuzione altalenante, invece, per il terzo e ultimo brano in programma, il Concerto per orchestra di Bartók, del 1942-3, una delle ultime composizioni del suo catalogo, nata negli Stati Uniti, dove il compositore, ungherese fino al midollo, si sentì sempre estraneo (un po' come Rachmaninov). Struttura in cinque movimenti, a perno su quello centrale, un'Elegia, il Concerto per orchestra si rifà ancor più da vicino al modello barocco del concerto grosso, in special modo nel secondo movimento, Presentando le coppie , dove i fiati vengono “presentati” eseguendo passaggi “a due”. Il quarto movimento, poi, Intermezzo interrotto, è così chiamato perché l'unica linea melodica “lirica” del Concerto è interrotta da una parodia quasi bandistica di un frammento di Šostakovic, il tema dell'ostinato della Settima Sinfonia “Leningrado” , all'epoca molto popolare negli Stati Uniti (trait d'union con il precedente concerto dell'OSN, 25 e 26 febbraio 2016, in cui la “Leningrado” è stata diretta da Oleg Caetani). Bartók non riusciva a capacitarsi di come una catastrofe come una guerra mondiale fosse stata resa in musica da un tema volutamente così banale come quello scelto da Šostakovic, e ancor meno capiva il grande successo della sinfonia: tale smarrimento trova luogo qui, in questa denuncia musicale di tanta superficialità, storpiando il tema e orchestrandolo in modo caricaturale.

Valcuha parte bene: l'introduzione è carica di presagi, il tono rimane sostenuto per tutta la durata del primo movimento e per parte del secondo. Terzo e quarto movimento soffrono di una certa staticità, mentre il finale, collegato senza pause, trova la forza di imporsi nuovamente. Composizione difficile, impegnativa, densa di dissonanze, eseguita al termine della serata, ha messo alla prova l'OSN (e il pubblico), che tuttavia esce vincente, offrendo un'esecuzione di sicura efficacia e della dovuta asprezza, tipica di molta della produzione bartókiana.

Christian Speranza

14/3/2016

Le foto del servizio sono di PiùLuce.