RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Trascrizioni d'autore

Ricca di proposte interessanti, la stagione concertistica dell'Unione Musicale 2016/2017 si è aperta con un primo appuntamento d'indiscutibile fascino, mercoledì 12 ottobre 2016 nella suggestiva cornice del Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Torino. Protagoniste le sorelle Katia e Marielle Labèque, pianiste «famose per la straordinaria perfezione tecnica e musicale e per la loro energia» (dal programma di sala), impegnate in un recital che ha scavato nel repertorio delle trascrizioni d'autore per due pianoforti e per pianoforte a quattro mani.

L'esigenza di rendere riproducibili le composizioni per orchestra nell'ambiente ristretto del salotto si è concretizzata, durante l'Ottocento, nella trascrizione per pianoforte di moltissima musica, a due o quattro mani, in versioni più o meno abbordabili dai dilettanti oppure opportunamente rielaborata in veste virtuosistica: è il caso del Liszt trascrittore, per esempio, con le sue Parafrasi su opere di Verdi, di Mozart, di Wagner, le trascrizioni di piccoli Lied di Schubert o Schumann, i Preludi e Fughe organistici di Bach, sino a intere sinfonie, come quelle di Beethoven; e ancora nel Novecento musicisti come Busoni, Siloti, Godowski o Bauer si diedero alla trascrizione pianistica di brani bachiani o chopiniani (la celebre versione degli Studi di Chopin rivista da Godowski, mirante ad ottenere degli “studi di studi” ancora più difficili). Ma accanto a questa esigenza, vi è anche quella di utilizzare la tastiera (o le tastiere) come banco di prova per successive orchestrazioni (la maggior parte delle partiture venivano stese come “minuta” al pianoforte e orchestrate in seguito). Ed è qui che si inserisce il programma del concerto in esame.

Le sorelle Labèque hanno selezionato brani novecenteschi trascritti per pianoforte dagli autori stessi. Ha aperto la serata Le Sacre du printemps di Stravinskij, nella versione per due pianoforti. In questa veste, senza la componente coloristica della grande orchestra che la versione strumentata richiede, si capisce ancor meglio quale trauma debba aver vissuto il pubblico della prima esecuzione assoluta, nel 1913, di questo balletto in due atti: una quarantina di minuti in tutto, legati da temi che si originano gli uni dagli altri grazie a una serie di sottili rimandi, nei quali tutte le regole della musica così come era conosciuta all'epoca vengono spazzate via da dissonanze crudeli, masse sonore estremamente stridenti, contrasti mai osati prima: il tutto scritto per un'orchestra smisurata, che non esita a richiedere anche strumenti insoliti (come il flauto contralto). Non per nulla quella première e questo brano segnarono, per i musicologi, l'ingresso ufficiale nell'era della musica moderna. Siamo nel primo periodo produttivo di Stravinskij, quello iconoclasta, in cui vengono sfoderate audacie che non ripeterà più neanche dopo la lunga parentesi neoclassica che costituisce il suo secondo e più lungo periodo.

L'esecuzione delle sorelle Labèque si è avvalsa non solo di una tecnica sbalorditiva, già ben nota, che ha ripulito il suono da qualsivoglia imperfezione, ma anche di una notevole forza fisica. I passaggi di agilità e in fortissimo non sono pochi, la partitura abbonda di virtuosismi (che poi si traducono nei virtuosismi orchestrali). I due pianoforti, che sovente si scambiano il ruolo di strumento principale, concorrono a dare l'idea degli strumenti, a volte trattati come grumi sonori. L'inizio propende per un clima sospeso, meditativo, piuttosto lento. Bernstein avrebbe avuto da ridire: questa antica melodia lituana (affidata al famoso assolo sovracuto del fagotto nella versione strumentale) andrebbe eseguita senza indugiare troppo, secondo lui; eppure, al pianoforte riesce forse meglio così, senza fretta: un'introduzione che nulla fa presagire dello scatenamento di furie cui di lì a poco si sarà testimoni. L'inizio del secondo atto, in parallelo espressivo col primo, sceglie un'atmosfera di fredda rarefazione, anche qui per conciliare l'attesa in vista del “dopo”. I momenti concitati non tardano ad arrivare, ed è qui che si acquista coscienza del bilanciamento tra aggressività e riflessività di questa esecuzione. In quanto ad aggressività, vi è forza espressiva e insieme perfetta coordinazione e controllo tecnico da parte delle interpreti: quelle sonorità bestiali, volute appositamente per rendere la violenza della versione orchestrale, simboleggiano la natura istintuale dell'uomo, che le scienze ci dicono sopravvivere nell'archiencefalo: sempre Bernstein, durante le prove d'orchestra, parla di musica che evoca dinosauri, pesanti dinosauri, oppure il sesso, nella sua sfaccettatura più animalesca. Per l'ultimo, dissonantissimo accordo, alla fine della Danza sacrificale dell'eletta, in cui sul palcoscenico una ballerina interpreta una fanciulla che balla sfrenatamente sino a morire, un brevissimo ansimare di una delle due pianiste ha suggerito l'idea di un coinvolgimento fisico ed emotivo tale, che lo strumento non fosse più propaggine sufficiente a incanalare la sua forza, ma dovesse esprimersi col corpo stesso.

Passando al secondo brano in programma, per pianoforte a quattro mani, tutte le violenze espresse nel Sacre sono evaporate, lasciando quella lieve foschia azzurrina che è Ma mère l'oye di Ravel: una serie di cinque miniature concepite per essere facilmente accessibili anche ai giovani studenti di pianoforte, ciascuna dedicata a una fiaba di Perrault; scritta nel 1910, questa suite verrà orchestrata l'anno successivo ed in quest'ultima veste (anche in questo caso, come nel caso del Sacre, si tratta di un balletto) rimasta famosa. Le sonorità delle sorelle Labèque sono tutte sfumate, dolci, sottovoce. Nella Pavane de la Belle au bois dormant è sembrato di ascoltare un carillon, e in vari altri momenti un'arpa. Sovente si avvertono sonorità debussyane, specialmente in Laideronnette, Impératrice des pagodes, e le Labèque risultano ottime nel rendere questo tocco à la Debussy. Il finale del Jardin féerique, coi ripetuti glissando verso l'acuto, viene condotto con più classicismo, senza eccedere la misura del buon gusto.

Terzo e ultimo autore della serata, proprio il già citato Bernstein, non più in veste di direttore ma in quella di compositore, in particolare del musical West Side Story, trasposizione americana del Romeo e Giulietta shakespeariano, da cui Irwin Kostal, già collaboratore di Bernstein, trasse alcune Songs trascrivendole per due pianoforti. Le Labèque propongono i momenti salienti della trama attraverso i brani più famosi, come Maria o America. Attaccano con piglio sbarazzino ma volitivo fra puro swing e momenti più calmi, e tale è l'entusiasmo che trasmettono, da far nascere in platea applausi non solo alla fine di tutte e cinque le Songs, ma anche tra una e l'altra. Applausi meritatissimi, ché anche qui, come nel Sacre, si è potuta ammirare la loro straordinaria forza comunicativa. La tecnica agguerrita e come sempre impeccabile è stata di supporto a questi brani che, pur ballabili e coinvolgenti anche trascritti per due pianoforti, devono essere resi con la adeguata bravura, pena la riuscita non brillante dell'esecuzione.

Voti massimi insomma per questo concerto, che non si è fermato qui. Al termine dei numerosi applausi, ben due encore. Il primo, annunciato dalle sorelle stesse, è stato Quattro movimenti, per due pianoforti, di Philip Glass, compositore americano che per loro ha scritto un Concerto diretto da Gustavo Dudamel in prima mondiale (2015); il secondo, tanto per restare in tema con la serata e chiudere come hanno aperto, il Valzer dai Tre pezzi facili per pianoforte a quattro mani di Stravinskij.

Christian Speranza

24/10/2016