RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Un'apertura da manuale!

L'onore e l'onere di aprire la stagione concertistica 2013/2014 del Teatro Regio di Torino, sabato 26 ottobre, è toccato a Manfred Honeck alla testa dell'Orchestra del teatro stesso. In programma l'Incompiuta di Schubert e il Titano di Mahler.

Vienna, ottobre 1822: Schubert decide di cimentarsi per l'ottava volta col genere sinfonico. Scrive di getto i primi due movimenti, abbozza lo Scherzo… e lascia morire il progetto. Nel 1823 consegna il manoscritto a Hüttenbrenner: ma dovremo attendere il 1865, ben 37 anni dopo la morte di Schubert, per la prima assoluta!

Questa, a grandi linee, la vicenda storica dell' Incompiuta: due grandi movimenti di sinfonia senza gli altri due. Perché non l'ha completata? Due le ipotesi più plausibili: la prima è che, nella panoplia di composizioni cui Schubert attendeva simultaneamente, non abbia trovato il tempo di portarla a termine. Ma due movimenti di questa portata non si abbandonano solo per curare altre composizioni: in queste note c'è l'ambizione, c'è la volontà di andare oltre i limiti. La seconda è che, a un certo punto, questa sinfonia si sia rivelata così impegnativa, da farlo desistere: già la Settima si presentava come una sinfonia completa, ma stesa solo al pianoforte (verrà orchestrata successivamente da Weingartner e da Newbould): addirittura, nell' Ottava, dopo i primi due movimenti, Schubert si sarebbe sentito inadatto a proseguire sullo stesso livello . «A l'alta fantasia qui mancò possa»? Possibile. Ma una terza ipotesi interpreta il fatto come scelta volontaria, stilisticamente motivata, ed è quella che espone Sergio Sablich nel programma di sala del concerto: dopo quei due movimenti, la sinfonia sarebbe stata già completa, non sotto il profilo formale ma sotto quello contenutistico. Altre aggiunte non avrebbero fatto altro che squilibrare il perfetto dittico formato da quei due movimenti.

Curiosamente la storia di questa sinfonia non si è arrestata a quegli anni: nel 1993 Angels Cry, l'album d'esordio degli Angra, si apre con un'introduzione dedicata proprio all' Incompiuta di Schubert. Vale la pena di ascoltare questa versione: testimonia una volta di più la sua modernità.

La lettura offerta da Honeck si segnala per un'interpretazione equilibrata, in qualche modo affine a quella di Muti coi Wiener Philamoniker (sebbene chi scrive continui a preferire una visione più tempestosa e romantica, come quella di Solti). Nell' Allegro moderato il pianissimo d'apertura è compatto, sostenuto; partitura alla mano, l'accompagnamento degli archi a sostegno del secondo tema è chiaramente distinguibile (notevoli i pizzicati dei contrabbassi). Gli sforzati sono rispettati, a dispetto di altre interpretazioni che li attaccano di punta rendendoli troppo aggressivi (non sono fortissimi!). Nel complesso, nonostante qualche trascurabile prevalenza dell'accompagnamento sul tema ed una condotta delle dinamiche non sempre attinente alle indicazioni dell'autore (soprattutto nel secondo movimento), si è trattato di un'interpretazione in grado di catturare il pubblico. Il solo di clarinetto dell'Andante con moto, par Luigi Picatto, si è distinto per la dolcezza del suo spegnersi languido. La chiusura è stata interpretata divinamente: in un'atmosfera raccolta, le ultime note si sono dispiegate come un corale, una preghiera sottovoce, uno sguardo fiducioso alle stelle in attesa dell'alba.

Come molte Prime Sinfonie, anche quella di Mahler è stata, per usare parole sue, uno Schmerzkind, un “figlio difficile”: stesura e cancellazione dei programmi d'ascolto a guida del pubblico, ispirazione dichiarata al Titano di Jean Paul e sua smentita qualche anno dopo, addirittura rimozione in blocco di Blumine, l'originario secondo movimento della versione in cinque tempi. Perché originariamente ciascun movimento aveva un titolo e un programma (nel caso di Blumine, una scena d'amore di ambientazione campestre). Anno 1888, Gustav ha 28 anni: l'entusiasmo giovanile di applicarsi ad un vasto progetto sinfonico è grande, comprensibile, non privo però di continui ripensamenti. Nutrito di letteratura romantica, e desideroso di esprimere tutto se stesso, si mette all'opera unendo visioni contrastanti di tutto il mondo che fino allora aveva conosciuto; il lavoro è pronto nel giro di un anno, e nel 1889, ma l'accoglienza poco incoraggiante del pubblico di Budapest lo induce ad una prima revisione, e nuove revisioni si succederanno per le esecuzioni di Amburgo (1893) e di Weimar (1894): insomma, dobbiamo aspettare il 1896 per la versione definitiva e il 1899 per la stampa! L'ispirazione giovanile non è ancora coesa (ecco perché l'autore cerca inizialmente di guidare il pubblico con un programma di ascolto: di fondo, rimane l'idea di illustrare la vita e le gesta di un eroe attraverso i suoi stati d'animo): ma i tratti del Mahler maturo sono già tutte presenti, in nuce: l'amore per la natura, la mescolanza di registri espressivi, gli elementi militareschi (marce e marcette), la tendenza al grandioso, all'uso di un'orchestra allargata e a timbri sovrapposti. Prendiamo il primo movimento. Nel documentario Autopsie d'un génie, il biografo Henry-Louis De La Grange racconta un episodio dell'infanzia di Mahler: un giorno il padre lo condusse con sé in un bosco poco distante da casa; arrivato in mezzo al bosco, si ricordò di dover tornare a casa e lasciò il piccolo Gustav da solo. Quando andò a riprenderlo, trovò il bambino immerso nell'ascolto della natura attorno a lui: possiamo immaginarlo ad occhi chiusi, cullato dal cinguettio degli uccelli, dai rabbuffi di vento tra gli alberi, dai sussurri del sottobosco. In distanza, marce militari della guarnigione locale. Anni dopo, tutto questo torna nell'introduzione del primo movimento della Prima Sinfonia: gli archi, immobili e proiettati nel registro sovracuto in piucchepianissimo , che ricordano l'avvio del Preludio del Lohengrin (e che nella lettura di Honeck avremmo voluto ancora più impalpabili), danno quell'atmosfera di indefinito da cui tutto può prender forma (il vento tra i rami?); clarinetti e trombe (queste ultime collocate da Honeck dietro le quinte, secondo il volere del compositore: chi scrive ha assistito ad esecuzioni in cui le trombe suonavano pianissimo, ma non fuori scena: e non è la stessa cosa) a schizzare i drappelli militari in lontananza. Poi, ecco arrivare i fiati: il canto del cucù, o di qualche altro uccello. Il trattamento fugato che riservava Bach all'orologio a cucù (Thema all'Imitatio Gallina Cuccu) è distante: se nel caso di Bach si trattava di un dotto divertissement, nel caso di Mahler esprime, riportando l'indicazione dello spartito, ein Naturlaut, un “suono di natura”: e da questo intervento dei fiati, pian piano si origina il vero tema cardine di questo movimento, ai violoncelli. E ciò è tanto più significativo, se pensiamo che Mahler aveva già utilizzato questo tema per il secondo dei Lieder eines fahrenden Gesellen, in cui la voce declamava le parole Schöne Welt, “il mondo [è] bello”. Scoppi di vitalità orchestrale e passaggi intimistici si susseguono in una “Primavera infinita” (la didascalia originale), anche se non mancano accenti di più marcata drammaticità (che in alcuni passaggi dello sviluppo fanno pensare al primo movimento della Settima di Beethoven).

Nel secondo movimento prende vita un robusto Ländler, affidato all'apertura rude dei violoncelli (a nostro avviso un po' troppo rude, quasi caricaturale, nell'esecuzione di Honeck, che per il resto conduce l'orchestra a risultati espressivi vividi e misurati, e ricorda in certi tratti Bernstein coi Wiener Philarmoniker, ma più lento e marcato). Il Trio centrale si fa più dolce, quasi sensuale, come una coppia di innamorati che giocano con sguardi maliziosi. Ma la danza ritorna incalzante, appena annunciata da un corno titubante e ritenuto (quasi che chieda: “Posso ricominciare?”), fino alla conclusione allegra e gioiosa.

Curiosissimo il terzo movimento: una marcia funebre grottesca, sviluppata a canone sulla musica di Fra' Martino campanaro (e che in area germanica è nota come il funerale del cacciatore ) ma volta in minore: una trovata che il pubblico dell'epoca definì “una bizzarria”. Ma la bizzarria è l'anima di questo movimento: a partire dall'inizio, quando su un ostinato in pianissimo dei timpani soli (reminiscenza dell'inizio del Concerto per violino di Beethoven?) prende avvio il tema intonato da un contrabbasso solista (per noi Davide Ghio), per poi passare, ad altri strumenti, con un oboe impertinente che, sulla seconda entrata dei violoncelli, leva la sua voce nasale in un ritmo puntato (e che Eschenbach, alla testa dell'Orchestre de Paris, riesce a rendere alla perfezione: l'esecuzione è disponibile su Youtube, ed è, a giudizio dello scrivente, la migliore in circolazione). A questo inizio così originale, Mahler fa seguire niente meno che una musica di nozze ebraica, con tanto di grancassa e piatti a mo' di banda e coi clarinetti in mi bemolle e in do (i prediletti della musica klezmer): Mahler non ha ancora disconosciuto le sue origini ebraiche, come farà per entrare nella vita musicale viennese, ed anzi le cita, le celebra, e non perde occasione per inserire alcuni brevi passaggi di un'altra sua precedente composizione: il quarto dei Lieder eines fahrenden Gesellen. E quando questo nucleo tematico si spegne, Mahler ne inserisce un terzo, la sezione centrale più serena, in contrasto con le precedenti. Ma è un attimo: presto la marcia funebre a canone ricomincia coi suoi inserti klezmer, per spegnersi su impalpabili colpi di grancassa e sui pizzicati dei contrabbassi.

È da segnalare che questo brano, oltre ad essere parte della colonna sonora de Il concerto, film del 2009 per la regia di Radu Mihaileanu, è stato usato nel balletto Biancaneve, allestito al Teatro Regio di Torino nel maggio del 2011 e montato tutto su musiche di Mahler: la gravità della strumentazione e del timbro ha stimolato la fantasia del coreografo Angelin Preljocaj per la scena del lavoro ripetitivo e pesante dei Nani in miniera.

Honeck dosa bene le varie componenti, senza concedersi eccessi, ma senza neanche far brillare troppo le numerose peculiarità del brano. Si presta molto bene ad un ascolto didattico, lineare e preciso, ideale per apprezzare un brano così variegato e proteiforme in vista di stravaganze esecutive – ahimè – fin troppo presenti sul mercato editoriale.

La pagina sicuramente più interessante è il Finale: un quarto movimento di proporzioni enormi, che riassume e rilancia il contenuto dei movimenti precedenti e lo porta a compimento. Nel programma iniziale s'intitolava “Dall'inferno”: il grido di un cuore straziato che si leva dalle profondità del dolore, un tumulto a piena orchestra travolgente, che s'innesta direttamente su un'idea deliberatamente poco sfruttata nello sviluppo del primo movimento e che qui trova modo di esprimersi in tutta la sua drammaticità. Poi tutto si calma, come chi pian piano smetta di singhiozzare. Si apre così un primo squarcio lirico: ma è una svista o è voluto, l'unico fuggevole riferimento a Blumine, che, di poco modificato, somiglia al tema dell'ultimo Notturno di Chopin (battute 191-192)? La tempesta riprende, con altri scoppi d'orchestra, resi anche più grandiosi dal tam-tam. Ma è una tempesta destinata a rischiararsi, un percorso in ascesa, che si nutre di elementi del primo movimento: un po' alla volta le ombre scompaiono fino alla chiusa finale, un ultimo lampo di luce, un sorriso splendente, di un ottimismo convinto e raggiante.

L'esecuzione di Honeck predilige le mezze tinte, in una composizione che sprizza grandiosità da tutti i pori: gli scoppi d'orchestra ci appaiono velati, come contenuti, e la linea mobilissima dei violini in apertura di movimento è tenuta costantemente poco rilevata rispetto a ottoni e legni: è corretto che non emergano, poiché la linea di canto non è affidata a loro, ma non si dovrebbe dimenticare che essi fungono da propulsore, da fiume di fuoco sotterraneo vivo e pulsante, contro la maestosità tragica degli incisi dei fiati. Lasciare i violini in un secondo piano così poco profilato non ci è parsa la scelta migliore. Decisamente meglio le aperture cantabili, piene di pathos e di espressione. Le ultime note sono risuonate tornite da un'adamantina forza d'espressione: grazie a Mahler o ad Honeck?

 

Christian Speranza

2/12/2013