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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

Beethoven secondo Conlon

Si (s)cadrebbe nel «facile vangelo» di una frusta retorica sottolineare che la scelta da parte dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai (OSN), diretta da James Conlon, di eseguire la Nona Sinfonia di Beethoven a Muscat, in Oman, sia stata fatta in nome di quella fratellanza di popoli e di cuori alla quale inneggiano le parole di Schiller, nell'ultimo movimento. Per la prima volta nella storia, infatti, le note della Sinfonia n° 9 in re minore per soli, coro e orchestra Op. 125 (per contentare i maniaci dei cataloghi) hanno risuonato alla Royal Opera House di Muscat giovedì 8 dicembre 2016.

Due giorni dopo è stata la volta di Torino, sede abituale dei concerti dell'OSN. La Nona è stata eseguita all'Auditorium Arturo Toscanini, giovedì 10 e venerdì 11 dicembre, preceduta, quale degno portale d'accesso, dalla Lenore n° 3 , l'Ouverture in do maggiore Op. 72b concepita per il Fidelio (Op. 72), poi accantonata in vista dell'ouverture definitiva del 1814. Per fortuna, si potrebbe dire. Lenore n° 3 è un brano muscoloso, volitivo, ricco di brusche svolte melodiche e di colpi di scena (come la finezza timbrica della tromba fuori scena, l'arrivo del ministro che porrà fine alla tirannia di Don Pizarro), della durata di un quarto d'ora circa, che riassume in musica la vicenda dell'opera: pensare di anteporre un brano del genere ad un'opera sarebbe stata una scelta, da parte del compositore, troppo impegnativa per il pubblico. Con molto più senso drammaturgico e teatrale, la versione finale del Fidelio contemplerà un' ouverture più breve, più scattante, anche se la meno legata tematicamente all'opera tra le quattro che, a conti fatti, il Fidelio ispirò a Beethoven.

Andando con ordine, al 1804-05 risale la Lenore n° 2, scritta per la prima rappresentazione del 1805. Dopo il fiasco cui andò incontro questa prima versione, Beethoven scrisse la Lenore n° 3 per la ripresa del 1806, ma neanche questa versione modificata (da tre a due atti, con revisione del libretto e diversi tagli) venne gradita dal pubblico. Scartata anche la Lenore n° 1 del 1807, presentata durante un'audizione privata (e pubblicata postuma come Op. 138), del Fidelio non si sentì più parlare per sei-sette anni, fin quando, nel 1814, non venne ripreso il progetto, anteponendo la definitiva Lenore n° 4 .

Conlon pare da subito dominare la partitura beethoveniana, rivelando come pochi mesi di stretto contatto con l'OSN abbiano migliorato l'intesa orchestra-direttore. L'esecuzione resta costantemente tesa, riesce a trascinare e a tenere vivo l'interesse dall'inizio alla fine, soprattutto durante l'Allegro centrale, sostenuto e deciso. L'orchestra si dimostra in gran forma, nonostante la tournée di appena due giorni prima (il presente articolo si riferisce al concerto del 10 dicembre), eccellendo nella compattezza della sezione degli archi, che sanno volta a volta diventare protagonisti indiscussi, o farsi discretamente da parte per accompagnare il dialogo dei fiati, anch'essi validi nel ruolo, nonostante qualche trascurabile scivolone dei corni e delle trombe (da sempre il tallone d'Achille dell'OSN).

Vero e proprio pezzo forte della serata è stata però la già menzionata Nona Sinfonia, con la partecipazione del Coro della Radio Svedese, istruito dal maestro Peter Dijkstra, e dei solisti Aga Mikolaj (soprano), Elena Manistina (mezzosoprano), Brandon Jovanovich (tenore) e Paul Gay (basso-baritono).

Sinfonia quanto mai voluta da Beethoven, che la stese nel 1822-23, presentandola a Vienna nel 1824, ma a cui andava pensando da almeno una decina d'anni, stando alle date di schizzi e appunti vari sparsi qua e là sui Quaderni di conversazione, la Nona rappresenta l'inverarsi di un progetto più volte accarezzato, musicare l'inno An die Freude (Alla gioia) di Friedrich Schiller, opportunamente abbreviato, e il coronamento dell'attività sinfonica di Beethoven (anche se non l'ultimo suo tentativo, né la sua ultima composizione: restano gli abbozzi della Decima e tutti gli ultimi Quartetti, per esempio). L'esperimento di introdurre le voci al termine di una composizione strumentale, come “valore aggiunto” e insieme superamento del limite dell'incomunicabilità astratta che la musica per soli strumenti necessariamente implica, era già stato tentato da Beethoven con la Fantasia per pianoforte, coro e orchestra in do minore Op. 80. Anni dopo, la Nona ripropone su scala più vasta, sia dal punto di vista musicale, sia etico, per il testo proposto, lo stesso esperimento, portandolo ai limiti delle proporzioni sino a quel momento conosciute e superandole. Il raggiungimento di quel traguardo segnerà una pietra miliare per decenni, e il suo risultato artistico ed etico da parte di sinfonie quali la “Lobgesang” di Mendelssohn o la Seconda di Mahler – sinfonie dove, analogamente e su diretta ispirazione beethoveniana, le voci compaiono per esplicitare il messaggio dell'intera composizione – può e deve essere argomento di dibattito non del tutto archiviato. Sembra però che, a posteriori, Beethoven non fosse soddisfatto di quel finale con le voci, così diverso da quanto era stato scritto fino a quel momento, e vi sono delle testimonianze secondo cui avrebbe avuto in animo di sostituirlo con un brano totalmente strumentale (come del resto completamente strumentale avrebbe dovuto essere l'incompiuta Decima). Il corso della storia ha fatto il resto: il finale vocale rimase e a tutt'oggi costituisce il brano più famoso della sinfonia.

Riassumendo, si è trattato di una delle migliori esecuzioni di cui Torino sia stata spettatrice da diversi anni a questa parte. Tutto ha concorso a produrre un risultato di eccezionale valore artistico, riconosciuto dal numeroso pubblico (composto da un buon numero di giovani e di studenti di Conservatorio) che ha tributato applausi copiosissimi. La chiave di questo successo è stata la direzione precisa e attenta di Conlon, oltre ad una partecipazione appassionata dei musicisti. I tempi scelti per i diversi movimenti si sono mantenuti quasi sempre nel solco di una tradizione, non troppo rilassati (certe direzioni di Muti o Thielemann), né troppo veloci (“alla Toscanini”). Certo, la scelta dei tempi è sempre argomento delicato, non disponendo del parere dell'autore, nonostante la controversa questione secondo cui Beethoven avrebbe specificato i tempi metronomici delle sue sinfonie, rispettate per esempio da Noseda nella sua lettura del 2011 (indicazione che a quel punto diventerebbe imprescindibile). I tempi di Conlon sono parsi il giusto compromesso tra le dovute concessioni a quegli aneliti già tipicamente romantici della Nona, con tutte le sue aspirazioni alla smaccata drammaticità del primo e del secondo movimento, e il rigore da mantenere considerando il rispetto per la partitura. Simile potrebbe essere, anche nell'enfasi, l'esecuzione storica di Fürtwangler del 22/03/1942 (sebbene le direzioni dell'illustre collega tedesco siano indiscutibilmente superiori). Ma non sono solo i tempi a far grande un'esecuzione. Fattori come la compenetrazione dei piani sonori, il giusto peso accordato ai crescendo e ai diminuendo e a sfumature di significato che fanno di una direzione una vera interpretazione sono quelli che fanno la differenza. Si è già sottolineato il valore dell'OSN, che qui ha avuto ancor più occasione di mostrare le sue qualità, arricchita da strumentisti non previsti dalla partitura, ma resisi necessari, a giudizio di Conlon, per controbilanciare il contingente di archi esteso ad un'orchestra “a sedici violini primi” (per un totale di sessanta archi in tutto): i legni, infatti, sono stati portati da due a quattro: quattro flauti, quattro oboi, quattro clarinetti, quattro fagotti, raddoppiando i dettami della partitura e portando di fatto l'orchestra a dimensioni wagneriane (trombe, tromboni e corni sono stati invece introdotti nelle proporzioni volute da Beethoven). Un piccolo appunto al percussionista, talvolta troppo esuberante al suo strumento e capace di imporsi eccessivamente sul resto dell'orchestra.

Di prim'ordine la componente vocale. Il Coro della Radio Svedese esibisce una non comune compattezza, non disgiunta da un'emissione mai calante e da una perfetta intelligibilità del testo schilleriano. Fortemente caratterizzate le voci maschili del quartetto solistico: Gay è dotato di timbro medio-scuro e di facilità d'estensione verso l'acuto, che gli consente di muoversi bene sulla tessitura baritonale chiesta da Beethoven. Jovanovich è forse il migliore dei quattro, spiccando per volume vocale, chiarezza di pronuncia e arcate vocali molto ben delineate (leggermente coperto dall'orchestra verso la fine del suo intervento solistico). Più omogenee le voci femminili, nelle quali si rileva, come unica pecca, la tendenza insistita della Mikolaj a prevalere sugli altri solisti, in particolare sulla Manistina (che risulta quasi inudibile), invece di amalgamarvisi, cosa che ha portato più di una volta ad avvertire il suo timbro piuttosto pungente. Si tratta ad ogni modo di una voce valida, che varrebbe la pena riascoltare singolarmente (e la stessa cosa per gli altri tre solisti).

Si diceva all'inizio della retorica che sovente circonda la Nona una composizione sfruttata all'inverosimile nel campo del cinema (Arancia meccanica, tanto per citare un esempio famoso), della pubblicità e delle celebrazioni pubbliche. Eppure viene da pensare che, pochi minuti dopo aver finito di applaudire e di ascoltare le parole: «Seid umschlungen, Milionen!», «Abbracciatevi, o milioni!», ci si ritrovi in coda al guardaroba percependosi estranei gli uni agli altri e quasi spintonandosi per arrivare prima. Altro che abbraccio fra moltitudini... John Lennon, che tra l'altro moriva proprio l'8 dicembre del 1980, immaginava in una sua canzone un mondo senza conflitti, in cui tutti vivessero senza guerre e in fratellanza. C'è ancora parecchia strada da fare: la Nona , col suo messaggio, è ancora (purtroppo e per fortuna) estremamente attuale.

Christian Speranza

22/12/2016