RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Un domino si addice a Daniel

Le Domino Noir di Auber a Liegi

Daniel-François-Esprit Auber (1782-1871) era probabilmente troppo francese per i gusti degli stessi connazionali. La sua fortunata parabola artistica attraversò più storia di quanta ne sia ragionevolmente concepibile in un'esistenza umana. Nato sotto Luigi XVI, fu, ancora bambino, testimone nella sua Parigi dei violenti sconvolgimenti e dei sanguinosi orrori della Rivoluzione. Visse il fasto e lo sfacelo dei due imperi napoleonici, la Restaurazione, il regno di Luigi Filippo, la rivoluzione del 1848, la guerra franco-prussiana, per chiudere infine gli occhi, quasi nonagenario, nei giorni tristissimi della Comune.

Forse gli orrori e le atrocità di cui era stato attonito spettatore da fanciullo bastarono a renderlo riluttante ai drammi e alle tragedie, ad indurlo a non prendersi troppo sul serio come musicista. Il soave cinismo e la grazia benevola, l'elegante riservatezza e la vivacità amabile caratterizzarono lo stile di vita quanto l'arte di questo allievo prediletto di Cherubini (di cui avrebbe preso il posto alla direzione del Conservatorio di Parigi) stimato e riverito persino da Wagner. Il durevole sodalizio con l'ineludibile librettista Eugène Scribe fruttò una ricca serie di opere di genere prevalentemente comique, per lo più acclamate ed a lungo in repertorio. Il versante comique annovera, tra le altre, Fra Diavolo (1830), Le Domino noir (1837) e Les Diamants de la Couronne (1841), quello serio La Muette de Portici (1828), Gustave III (1833) e Manon Lescaut (1856).

Andato in scena il 2 dicembre 1837 all'Opéra-Comique, Le Domino noir si impose allora – riscuotendo il plauso del pubblico e dei critici, compreso Berlioz – e brilla tuttora grazie alla leggerezza, l'eleganza e lo spirito nonché alla malia della screziata invenzione musicale.

In una Madrid abbastanza immaginaria la nobile ereditiera Angèle de Olivarès è costretta a prendere il velo in un convento di cui diventerà badessa, favorendo così i sordidi interessi della sorella e del cognato, quest'ultimo un maligno quanto ridicolo lord britannico. Ma, alla vigilia dell'irrevocabile passo, si concede un'escapade, in compagnia di una nobile novizia anch'essa in procinto di pronunziare i voti, per partecipare in domino a una festa in maschera. Rivedrà così lo sconosciuto, cioè Horace de Massarena, di cui si è innamorata, il quale, pur ignaro della di lei identità, l'ama già perdutamente. Dopo varie e tragicomiche peripezie notturne, la futura badessa rientra all'alba in convento alla chetichella per apprendere che la regina la libera dai voti, le consente di ereditare e di sposarsi con l'amato Horace a scorno dell'avido cognato.

Poiché per secoli gli operisti si sono senza impaccio imitati gli uni gli altri, Auber, che all'occorrenza copiava anche lui, dovette “prestare” il modello al Domino nero di Lauro Rossi (Milano 1849), emulo non meno felice, il quale ne approfittò per una azzeccata e saporosa quanto corposa e sgargiante parodia dell'opera italiana coeva. L'efficace libretto di Francesco Rubino la vince però su quello del collega Scribe. Riscoperto nel 2001 a Jesi, questo Domino nero sopravvive in CD.

Le Domino noir, prodotto in tandem dall'Opéra de Wallonie e dall'Opéra-Comique parigina, ha toccato Liegi prima di Parigi. Una completa riuscita, dove teatro e musica vanno a nozze. La regia di Valérie Lesort e Christian Hecq, benvenuti neofiti nella lirica, è la prima lietissima sorpresa: lo spettacolo, egregiamente coadiuvato dalle scene di Laurent Peduzzi e dai costumi di Vanessa Sannino, conquista in virtù di un'inventiva immaginifica leggera, arguta e frizzante, di maschere e costumi eleganti e variopinti, di disinvolti movimenti di coro, ballerini, figuranti e solisti, di un paradossale humour che coinvolge fino il maiale del banchetto del secondo atto e le statue del parlatorio del terzo ed ultimo, che si animano all'occasione. Scivola, senza infierire, sulla simulata devozione delle monache.

Patrick Davin ha guidato con sensibilità, vivacità, flessibilità e mordente la solida orchestra della Casa in un elegante dialogo tra buca e palcoscenico. Da autentica mattatrice, si è imposta l'Angèle di Anne-Catherine Gillet, soprano di cangiante virtuosità e ammirevole presenza scenica in maliziosa ma aggraziata partnership con l'Horace del tenore Cyrille Dubois, soave e vigoroso. Ma il successo della serata lo hanno garantito altresì, rispondendo alle sfide dei rispettivi ruoli, il mezzo soprano Antoinette Dennefeld (Brigitte), il baritono François Rougier (Juliano), i bassi Laurent Montel (Lord Elfort) e Laurent Kubla (Gil Perez), il mezzo soprano Marie Lenormand (Jacinthe), e, nei ruoli secondari, Sylvia Bergé (Ursule), Tatiana Mamonov (Tourière) e Benoît Delvaux (Melchior). Il coro, per concludere, affidato alle cure solerti di Pierre Iodice, ha brillantemente contribuito a rendere memorabile la serata.

Fulvio Stefano Lo Presti

15/3/2018

Le foto del servizio sono di Lorraine Wauters.