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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

La sinistra mano di Deborah Warner

Beati coloro che nella selva oscura intorno al Bardo, che da 400 anni chiamiamo William Shakespeare, si muovono disinvolti con “scientifica” sicumera tra anniversari (appunto i 400 dalla morte, avvenuta chissà se a Stratford-upon-Avon, chissà se in casa dell'unica figlia in vita, Susan), ricostruzioni “storiche”, testamenti “inoppugnabili”, personaggi “autobiografici” come Prospero di “La tempesta”. E così, a tal proposito, ribadisce Deborah Warner, oggi commendatore dell'Ordine dell'Impero Britannico (le manca poco per diventare Dame), cinquantasettenne regista dal lungo passato-presente da teatrante in carriera, dalla gloriosa Royal Shakespeare Company passando per l'opera in musica, che firma, oggi, una discutibilissima “The tempest” divenuta “Der Sturm” per il Festival di Salisburgo.

Ebbene quando si parla del Poeta di Amleto a noi sembra tutto talmente indefinito e, al tempo stesso, acclarato. Giacché – a dispetto delle resistenze del “papato” shakespeariano che affonda nel grande business nella (natìa?) Stratford – appoggiamo lo “Shakespeare by another name” (da Mark Anderson in poi) sulla vexata quaestio di non essere mai stato il semianalfabeta figlio del guantaio, ma il colto, blasonatissimo XVII Conte di Oxford, Edward De Vere (1550-1604) a parte il contorno delle presunte origini siciliane (Lanza da “Scuotilancia”). Ma, sic stantibus rebus, con la benedizione laica di Harold Bloom, Jan Kott e, perché no, anche del nostro Stefano Manferlotti, preferiamo concentrarci, accanirci, aggrapparci all'unico dato certo di Shakespeare: le sue opere. I suoi “sacri” in-folio e in-quarto che planano da secoli e secoli su tutto il mondo, come le governanti di “Mary Poppins” e con cui spesso molti, anche suoi conterranei, giocano facile. Troppo facile.

Sembra messa in scena con la mano sinistra (e infortunata per giunta), “Der Sturm” secondo Deborah Warner: è una Tempesta di “mi-butto-a-terra-e-mi-sporco-tutto” in cui soluzioni di splatter a buon mercato si mescolano a uno sbattere reiterato e alla lunga prevedibile di qualunque superficie piatta e ad urla sgangherate e urticanti. Ben (s)figuravano poi sputi, rivoli di finto sangue ed alcool affannosamente leccati, opinabili, tristissimi nudi integrali con esposizione di “gioielli di famiglia”. God, quant'è datato tutto questo, commendator Warner.

E non basta l'autorevolezza di Peter Simonischek – di casa al Festspiele per cui è stato più volte applaudito “Jedermann”, spettacolo-culto a Salisburgo – nei panni di Prospero, originariamente destinato a Hans-Michael Rehberg (per la presenza di quest'ultimo, la Warner aveva detto d'essere disposta a fare le Alpi a piedi scalzi, speriamo che in questo caso abbia almeno percorso il Monchsberg in scarpe comode).

La teatralissima chioma come verosimilmente raggrumata dalla salsedine dell'isola in cui è stato costretto ad esiliare da un fratello usurpatore, Simonischek, Duca di Milano vero e vero mago, congettura una “vera” tempesta in modo da far naufragare gli avversari manipolandoli, in testa il fratello Antonio, la sua natura demoniaca e i suoi complici, e tenta così di reinsediare la figlia Miranda (Sara Tamburini, mamma tedesca di Zurigo ma di lingua madre italiana, come il padre) che conoscerà finalmente l'amore grazie a Ferdinando, figlio del re Alonso, alleato dell'usurpatore Antonio. Il Prospero di Simonischek è di buon mestiere, a tratti sobriamente intenso come nel celebre epilogo che, preceduto da un falso finale, non sortisce l'effetto voluto ché la platea non capisce subito e fa per coprirlo d'applausi prima del tempo.

Misera sorte tocca al sub-plot animato dal “mostruoso” schiavo di Prospero, Calibano, che rivendica il suo potere sull'isola e che qui è Jens Harzer (altra incandescente pregnanza quella del danzante e strisciante folletto “nero” Piero Sammataro, nell'insuperata “Tempesta” strehleriana, sovrano di un Ade non così ultraterreno). Quando non è senza veli, Caliban è “nero” solo perché pietosamente coperto da una nera magliaccia e neri pantaloni di tuta, i capelli costantemente fradici, non si sa se più tossico o sciroccato, la bocca che s'apre e si chiude come quella di un pesce spiaggiato.

Della Tamburini si vorrebbe fare una rivelazione ma, al momento, la giovane Sara è una graziosa neodiplomata di buona volontà. Questa Miranda è eccessiva sin dalle prime battute, dalle prime urla sguaiate ma conosce, per fortuna, un felice ridimensionamento nella seconda parte.

Ariel (Dickie Beau), salvo i momenti in cui è inopinatamente “doppiato” dalla voce di Fiona Shaw (che meraviglia di “parola” teatrale! Lei è da sempre sodale artistica della Warner, qui ovviamente non vi era parte per lei a meno che non volesse interpretare Prospero come già accadeva nel suo controverso Riccardo III. E magari poteva essere “la” cifra d'uno spettacolo di maniera) e Angela Winkler – è un fanciullo più inappropriato che inafferrabile.

I naufraghi? Indossano salvagente come i sopravvissuti del Costa Concordia e sacchi a pelo argentati come i migranti, una ha scarpe tacco 8, l'altro calza occhiali da sole trendy.

Il punctum dolens è che la scena non è più né agone né agorà né cenacolo di poesia. Non li compromette e non ci compromette, non è ripetuta trasgressione ma tensione spezzata perché, signori, Tempest o Sturm, va pur bene smuovere un sorriso qua e là ma perché trasformare un capolavoro in una sequenza di gag fosche e sgangherate? Il palcoscenico è diventato un immondezzaio di indifferenziata che non ha ragione d'essere, non per tutto il tempo, non in misura così monotona e ossessiva.

Due “segni”, sì, sono stati davvero ben congegnati e ben realizzati, profondamente, liricamente carichi di metafora. L'effetto iniziale (e finale) di “vera” tempesta marina con installazioni visuali che fanno della sala di Hallein un oceano minaccioso e con un crescendo sonoro inchiodante e travolgente. Lo schermo sul fondo, intanto, riproduce una spiaggia deserta di lì a poco punteggiata dai naufraghi. Eppoi una nuvola, una sola, incombente e gonfia di presagi che scorre su un filo invisibile (come forse avrebbe dovuto fare Ariel) fino a scivolare, minacciosa, sulla platea.

A proposito di platea.

Durante lo spettacolo (3 ore e 10 minuti, un solo intervallo) guardavo una bimba seduta nella fila davanti alla mia. Era rispettosa dell'evento e perciò rispettosamente abbigliata come la sua mamma, generosamente austriaca: dirndl al completo, i capelli biondi raccolti in treccine circolari e fermati da una coroncina di roselline. Guardava assorta il palco e poi la mamma. La mamma e poi il palco. Perché, alla sua prima “Tempesta”, deve vedere un equivoco?, mi chiedevo. Perché deve fare di tutta l'erba un fascio di splatter televisivo? E perché, a proposito di magia, deve poter riconoscere più facilmente il piccolo Harry Potter piuttosto che il grande Prospero? Insomma, perché non deve provare e sentire – nel suo piccolo che in realtà è più grande dei “grandi” – che siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni?

Carmelita Celi

10/8/2016