RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Le ragioni di Dio

Il teatro Brancati di Catania ha proposto al suo pubblico il 26 gennaio, con repliche fino al 12 febbraio, uno dei lavori più interessanti della drammaturga israeliana Anat Gov, scomparsa prematuramente nel 2012. Il testo, dal titolo Oh, Dio Mio!, propone un'interessante seduta terapeutica tra Ella, giovane psicologa di successo afflitta dalla sventura di un figlio autistico, ed un enigmatico anziano signore, che si presenta a lei come Il Signor D., dichiarando senza mezzi termini di aver urgentemente bisogno di un supporto psicologico per scongiurare un'ennesima crisi depressiva che potrebbe avere conseguenze devastanti. La donna accetta, pur se con qualche perplessità, ed è così che lentamente tra i due si instaura un dialogo dai risvolti surreali, ma anche metafisici, dal quale entrambi, riuscendo pian piano a mettere a nudo i rispettivi sentimenti, riemergeranno se non mutati, almeno coscienti delle contraddizioni che affollano la loro psiche: un colloquio giocato sempre sul filo dell'incertezza, giacché Ella non può, o forse non vuole capacitarsi, che chi le sta davanti sia veramente Dio, e dal canto suo il signor D. nulla fa, almeno per un bel po', per dissipare negli spettatori il dubbio che non dell'Onnipotente si tratti, ma solo di un nevrotico o di un paranoico afflitto da una gravissima forma di mitomania.

Tuttavia, il dipanarsi del dialogo, nutrito su entrambi i fronti da citazioni bibliche rivisitate sia a parte umana che a parte divina, e soprattutto l'eco intertestuale delle riflessioni antropologiche e teologiche sulla figura di Dio che, sulla scorta di una fitta corrispondenza epistolare con lo studioso delle religioni Károly Kerény, Thomas Mann riversò nel primo volume della tetralogia di Giuseppe dal titolo Le storie di Giacobbe, sfronda lentamente ogni dubbio, in un climax discendente del comico a tutto vantaggio del tragico-grottesco, facendo emergere in tutta la sua complessità una figura divina che, per dirla sempre con Thomas Mann, spogliatasi delle caratteristiche gelose e vendicative dello Jahvè ebraico, svela tutta la sua solitudine affettiva dinanzi ad un Uomo che non riesce a comprenderlo e che quindi lo relega sempre più ai margini della propria esistenza, rivolgendosi a Lui solo per insultarlo o per invocarlo nei momenti di più nera disgrazia.

Dio paga quindi lo scotto di quel gioco di onnipotenza che ha dato vita al mondo e al genere umano e, nelle accuse di Ella, di tutta la gratuità dei suoi comportamenti, del sangue fraterno sparso tra Caino e Abele, delle persecuzioni terribili di cui sono stati oggetto gli ebrei, il popolo ironicamente eletto, e comunque di un mondo di cui Lui, magari con la scusa del libero arbitrio, non è stato capace di prendersi davvero cura come la sua infinita onniscienza avrebbe dovuto.

Ma anche Dio ha le sue ragioni: Ella, psicologa sedicente atea, in effetti lo invoca sin da bambina, continua a sperare in un miracolo che doni la parola al figlio autistico (interpretato con molto realismo da Giovanna Mangiù) e che ponga riparo alla sua desolata vita da single: solo dal riconoscimento delle ragioni di entrambi, in un impossibile e commovente abbraccio tra il divino e l'umano, Dio riacquisterà la sua onnipotenza, ed Ella la coscienza della propria fragilità umana. Il finale, forse un po' troppo buonista, segnerà il congedo, stavolta fiducioso, tra l'umano e il divino, amplificato dalla prima parola pronunciata dal ragazzino autistico.

Un testo, come si vede, complesso, che l'icasticità dell'atto unico rende talvolta criptico, sempre in bilico tra una grottesca comicità e uno scavo della dimensione tragica del rapporto tra umano e divino; un testo che registicamente può virare sul fronte assolutamente comico, con notevoli fraintendimenti, o riuscire a mantenersi sul filo del rasoio di un'ambiguità iniziale che si svela lentamente nel procedere della pièce. Ezio Donato, che ha firmato la regia di questo spettacolo, ha deciso di muoversi più sul versante comico il che, se gli ha procurato un notevole consenso di pubblico, dall'altro ha inficiato l'aspetto umanistico del lavoro, impedendo di fatto, almeno per buona parte degli spettatori, la giusta comprensione del personaggio del Signor D.; infatti, anche le note di regia sembrano dipingere tale personaggio più come un monomaniaco (“pericolosa mania di onnipotenza che gli fa dichiarare di essere addirittura Dio”) che come ciò che realmente è, appunto un dio, ma un dio stanco, depresso, forse preda dei rimorsi per quel che ha combinato all'umanità, e appunto perciò alla ricerca di un nuovo patto, di una nuova alleanza che gli restituisca quei poteri che gli vengono solo dall'umanità che a lui guarda e che a lui si rivolge. È un dio che ha bisogno degli uomini, che da essi trae, per dirla con Feuerbach, il suo potere e la sua stessa esistenza, non una figura comica, ma desolata almeno quanto lo è Ella, atea suo malgrado e afflitta da quella solitudine cosmica che l'uomo può lenire solo nella ricerca del divino.

Tale unilateralità registica, se ha trovato un suo riscontro nelle scene forse un po' troppo naturalistiche di Susanna Messina, nelle luci abbastanza piatte di Sergio Noè e nelle musiche di Carlo Minuta, gradevoli nel loro taglio tradizionale, ma poco adatte al lavoro, e talvolta intrusive, per un vezzo strano di utilizzarle anche durante i dialoghi tra gli attori con notevole detrimento della comprensione del testo, non ha fortunatamente avuto grande eco, se non in una gestualità talvolta esagitata, nella recitazione dei due protagonisti, Debora Bernardi, nel ruolo di Ella, e Pippo Pattavina in quello del signor D.

La Bernardi, come del resto è nel suo stile, non ha ceduto affatto alla comicità pura, mantenendo il giusto equilibrio imposto dal personaggio, con una recitazione che lasciava intravedere sotto un naturalismo di facciata quel grottesco espressionista che rende amaro e cerebrale il comico, additando un oltre che frena il riso tramutandolo in riflessione ed amarezza. Le pregnanti pause, l'uso della voce come sempre poliedrico, ma soprattutto la mimica, l'hanno messa in grado quasi di guidare gli spettatori al vero significato del lavoro, facendone nel contempo la spalla ideale per Pattavina, che ha offerto una prova attoriale di gran classe, confermando ancora una volta una sua notevole versatilità nel repertorio non puramente comico.

L'attore ha saputo pennellare un Dio signorile, a tratti un po' distaccato, ironico, disperato, senza un istante di cedimento, giocando nella prima parte tutto il personaggio sul filo dell'equivoco, per poi farlo emergere lentamente nella sua reale essenza, in una dinamica dal Dio giovane ed entusiasta della sua creazione al Dio ormai anziano che, se non è morto (per dirla con Nietzsche) è certamente malato, ma malato di solitudine e di anaffettività. Né basta: perché anche stavolta Pattavina, come ne Il piacere dell'onestà che ha inaugurato la stagione dello Stabile, ha come raffrenato il suo pubblico, quasi obbligandolo ad apprezzarlo per le sue reali capacità attoriali e non solo per le sue doti umoristiche, lasciando scivolare inavvertiti gli spunti comici e le risate che ne sarebbero conseguite, e riservando invece tutta la sua attenzione allo scavo psicologico di un personaggio tormentato come solo un dio stanco dei suoi innumerevoli anni può essere.

Giuliana Cutore

28/1/2017

Le foto del servizio sono di Dino Stornello.