RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Senza piramide, senza cigno

Radames secondo Eötvös, Lohengrin secondo Sciarrino

Somiglianze vistose e divergenze sostanziali uniscono e dividono il Radames di Péter Eötvös e il Lohengrin di Salvatore Sciarrino. Oggettivamente li accomuna la contiguità cronologica (1976 il primo, 1982 il secondo) e lo schema del breve atto unico. Più vistosa la similarità di evocare entrambi, quali protagonisti eponimi, due archetipi del melodramma ottocentesco. Infine (e forse è questo il vero tessuto connettivo, a volerne identificare uno), tanto l'ungherese Eötvös quanto l'italiano Sciarrino scelgono di arpeggiare le loro minimalistiche drammaturgie sulle corde dell'assenza. Radames, qui, è senza Aida e costretto a indossare panni vocali da controtenore per poter cantare l'uno e l'altro ruolo; mentre il Lohengrin sciarriniano, sorta di visionario sequel di Wagner, inizia a cavaliere del Graal ormai risalpato verso i suoi lidi: in scena, solo un'Elsa devastata dalla partenza dell'amato e rinchiusa in ospedale psichiatrico.

Assai lontane, invece, le sensibilità e le estetiche sottese ai due lavori. Se il rapporto di Eötvös con l' Aida è d'indole parodistico-citazionista, Sciarrino guarda al Lohengrin solo in termini di situazioni e personaggi, per affidarsi poi alla propria vena musicale prosciugata, rarefatta, ben poco wagneriana insomma. Se Radames veleggia sul metateatrale comico-satirico (la vicenda è ancorata al vetusto espediente dello spettacolo operistico in prova), la variazione sul tema di Lohengrin prende a punto di partenza uno dei più noti testi simbolisti di Laforgue. Ma soprattutto appaiono diversi gli atteggiamenti dei due compositori – qui anche librettisti – nei confronti dei due classici oggetto della loro riflessione.

Eötvös, infatti, tenta un'operazione dissacratoria, molto anni Settanta, dove certi luoghi comuni verdiani (le melodie sono quelle dell' Aida , depistate da costruzioni armoniche di tutt'altro segno) vengono sbeffeggiati senza particolari pretese ermeneutiche, smontando il giocattolo-melodramma ma non rimontandolo. Così facendo appare più datato di Sciarrino, che s'incanala in quell'ampia riflessione tardonovecentesca sull'impossibilità di mantenere in vita la tradizione operistica e, al tempo stesso, sulla volontà di documentarla. La sua Elsa, verrebbe da dire, non discende solo dai due grandi melologhi di donne sull'orlo d'una crisi di nervi (Erwartung e La voix humaine, ovviamente): così verginale e agghindata per le nozze, è anche – alla lontana – una pronipote di Elvira dei Puritani e di tante altre eroine romantiche folli d'amore e di astinenza.

Per contro, la babele di Radames (il testo alterna inglese, tedesco, italiano: in quest'ultimo caso predominano i versi di Ghislanzoni) e la sua satira sul proliferare delle regie demiurgiche fagocitanti musica e canto (i soldi per lo spettacolo sono andati tutti per i 3-registi-3: bisogna fare l'Aida con quattro strumenti e un cantante solo) dovrebbero assicurare una certa rendita in termini di attualità e divertimento. Ma, a tirar le somme, non è che la comicità di Eötvös – ora tutta di testa, ora tutta di pancia – faccia sbellicare dalle risate.

Virtù di questo spettacolo che ha inaugurato a Bolzano la nuova stagione operistica della Fondazione Haydn è, appunto, aver dato vita a un dittico organico, che riconduce a unitario disegno drammaturgico due lavori nati da sollecitazioni in gran parte discordanti. E che, inoltre, riesce a restituire – pur nella frammentarietà della prima e nel fiato corto della seconda – tutte le intermittenti seduzioni sonore dell'operina di Eötvös e del monodramma di Sciarrino. Merito, sotto il primo aspetto, della regia di Bruno Berger-Gorski, che escogita un'ingegnosa liaison spaziale (nell'uno e nell'altro pannello il pubblico si trova sul palcoscenico assieme agli artisti) e visiva (gli interpreti non cambiano, a cominciare dalla regista occhialuta e grilloparlante di Radames che si trasforma in isterica Elsa lohengriniana) con esiti sempre pertinenti. Mentre, sull'altro fronte, è il direttore Yannis Pouspourikas il miglior avvocato delle due drammaturgie musicali: sia che si trovi a giocare con i borborigmi di sassofono, corno e tuba (irriverente pendant, per Eötvös, delle trombe nella Scena del Trionfo nell'Aida) sia che governi l'assai più nutrito, ma sempre trasparente, organico della partitura di Sciarrino.

Per quei paradossi tipici del teatro, poi, benché Radames sancisca (in nome delle regie) la morte del cantante, e nonostante solo in senso lato Sciarrino scriva in termini di canto, sono forse proprio i solisti il miglior valore aggiunto dello spettacolo. Autentica mattatrice è l'Elsa di Céline Steudler: magnetica – quasi ipnotica – sulla scena e gran virtuosa sui generis nell'inanellare gutturalità, schiocchi di lingua, stridori di denti. In Radames lascia il segno la malinconia spaesata e clownesca del controtenore Rafal Tomkiewicz (lo ritroveremo muto quale presenza-assenza di Lohengrin). E Alexander Kaimbacher – prima regista con borsello a tracolla, poi infermiere ospedaliero – è un tenore-attore da non dimenticare. I facitori dello spettacolo, insomma, si lasciano apprezzare più degli autori: e ci si mette in fila per il prossimo Lohengrin di Wagner e la prossima Aida.

Paolo Patrizi

23/1/2020

Le foto del servizio sono di Jacopo Coen e Massimo Franceschini.