RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Dal cinema al teatro

Piano… piano dolce Carlotta

Da sinistra: Gaetano Festinese, Loriana Rosto, Sebastiano mancuso, Elmo Ler e Antonella Scornavacca.

Nel 1964 Bette Davis, diretta ancora una volta da Robert Aldrich, fu la protagonista di Whatever happened to cousin Charlotte?, un film noir, sul genere di Mia cugina Rachele e Che fine ha fatto Baby Jane?, teso a indagare le turbe psichiche di una donna, già tarata mentalmente, con un passato oscuro alle spalle. Sceneggiatore, come per Baby Jane, fu Henry Farrell, autore molto esperto nel thriller psicologico, mentre il ruolo della coprotagonista, per il quale era stata inizialmente prevista Joan Crawford, fu invece affidato a Olivia De Havilland, che, pur essendo soprattutto ricordata come la dolce Melania di Via col vento, aveva ricoperto il ruolo principale in Mia cugina Rachele. Questo genere di film, affidati come sono allo scavo psicologico dei personaggi e all'indagine di veri e propri casi clinici, ben si prestano alle trasposizioni teatrali, data la facile possibilità di condensare la trama in dialoghi e una temporalità puramente mentale, che agevola da una parte la brevità della pièce, rendendola particolarmente pregnante, dall'altra il lavoro dello scenografo, cui bastano pochi e allusivi elementi per realizzare un'atmosfera adatta che rimandi in modo continuo alle ombre della mente e a un passato che, mai risolto, torna a tormentare in maniera ossessiva i protagonisti, predeterminandone in certo senso le azioni presenti.

La compagnia Absinthe Teatro, programmaticamente specializzatasi nel thriller psicologico, ha portato in scena dal 29 al 31 marzo al Musco di Catania un coinvolgente atto unico ispirato appunto alla sceneggiatura di Henry Farrell, dal titolo Piano… piano dolce Carlotta, dove già il titolo rimarca un approccio diverso rispetto a quello originale, e basato non tanto sull'omicidio dell'amante di cui viene accusata e sospettata Carlotta, ma sul contrasto tra il passato e il presente della donna, simbolicamente reso dal contrasto tra la musica del carillon regalatole dall'uomo, che rimanda al film ma anche al passato, e la tagliente musica dei Pink Floyd che rimarca l'ossessione di Carlotta, la sua follia, la spirale di sospetti, incertezze e lenta comprensione che condurrà all'esito finale.

La scarna ma efficace scenografia di Francesca Nicosia disegna sul palcoscenico tre stanze embrionali, luoghi di una memoria sempre più evanescente e contorta, le cui ombre sono affidati a velami semitrasparenti il cui rimando all'ambiguità dei ricordi è assolutamente icastico, mentre una scarnificata attrezzeria obbliga il pubblico a focalizzarsi esclusivamente sui dialoghi, sulle movenze degli attori, in un lento svelarsi del dramma di Carlotta che balza quanto mai vivo dall'assoluta nudità che la circonda. Il copione, concepito come una serie di blocchi argomentativi, ma anche come i singoli step di un ininterrotto processo di ricostruzione, de-costruzione e ricomposizione del passato, ha come pietra di volta non il delitto avvenuto nel lontano passato, ma le sue conseguenze sul presente, il continuo oscillare della protagonista tra rabbia e rassegnazione, tra dolcezza del rimpianto e rivolta, tra isolamento cercato e voluto e bisogno compulsivo di comunicare, di tornare a illudersi sui rapporti e sugli affetti umani. In quest'ottica, il regista Sebastiano Mancuso, pone l'accento proprio su questa dialettica passato-presente, innestandovi la dicotomia di sentimenti che accompagna non solo la protagonista, ma tutti i personaggi coinvolti nella vicenda. Ne deriva così, almeno nelle intenzioni del regista, una problematizzazione della deuteragonista Miriam, la cugina povera, non più relegata all'univoco ruolo di cattiva, ma personaggio ambiguo, colmo di contraddizioni come Carlotta, con un passato che la condiziona quanto e forse più della cugina, rinchiusa in una follia che, anche grazie alla fedele domestica, l'ha in parte tenuta al riparo dalla violenza e dalla ferocia del sociale. Anche la scelta del ruolo di Carlotta en travesti sottolinea quest'ambiguità di fondo: uomo nei panni di una donna, Carlotta è il punto focale di una dramma esistenziale che prima la famiglia, poi la società, hanno ipertrofizzato con le loro convenzioni dettate dal perbenismo, con la loro falsa morale, un dramma che non la distrugge solo in quanto donna, ma la rende vittima paradigmatica, e dunque uomo o donna non ha importanza, di tutte quelle forme di contenimento sociale, morale e religioso, che negli anni '60, ma in parte ancor oggi, hanno come unico fine quello di schiacciare e mutilare l'individuo, a volte scatenando turbe mentali che in consessi più liberi e razionali potrebbero anche restare latenti, permettendo così una vita quasi normale a chi ne è affetto.

I protagonisti si sono mossi su questa necessità di scavo e di condensazione indicata dalla regia, in particolare Elmo Ler, nei panni di Carlotta, che ha reso in modo molto accurato la dissociazione del personaggio, con una recitazione quasi di stampo espressionista, ben dosando le pause, la gestualità, affidando alle movenze oltre che alla voce il cupo precipitare in una follia rabbiosa e devastante. In ruolo anche Antonella Scornavacca, l'acida ma affezionata domestica Miriam, mentre Gaetano Festinese, il medico semialcolizzato Drew, si è disimpegnato con discreta professionalità, più nei momenti in cui interagiva con Ler e con la Scornavacca che in quelli dove il copione prevedeva dialoghi e schermaglie con la cugina Miriam, interpretata da Loriana Rosto, la cui recitazione ancora acerba e a tratti sopra le righe, forse eccessivamente naturalistica per il contesto, si è rivelata l'unica nota discordante di una pièce che ha entusiasmato il pubblico, che alla fine ha tributato a tutta la compagnia lunghi e calorosi applausi.

Giuliana Cutore

1/4/2019