RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

…finché vien notte!

Un grumo di pulsioni e di passioni, una forza della natura, un'energia smisurata e quasi violenta: una volontà di potenza sembra animare un uomo, solo sulla scena, nudo, accovacciato sul piancito. E quando passa una figura femminile, e poi un'altra, e poi un'altra ancora, tutte le sfiora, le ghermisce, tenta di possederle. Poi sarà un servitore ad porgergli una livrea, a temperare, limitare questa vis sorgiva e inarrestabile: per riassumere in pochi gesti tutto il dibattito che ruota intorno al Don Giovanni di Wolfgang Amadeus Mozart, l'insanabile dissidio tra ragione e sentimento, leggi di natura e convenzioni sociali, alto e basso, commedia e tragedia, che hanno reso immortale il capolavoro. Visualizzare l'Ouverture è scelta ormai abusata dal teatro di regia: vi fa ricorso anche Lorenzo Amato, per introdurre la nuova produzione del dramma giocoso in scena al Massimo di Palermo, lasciando presagire un'interessante ricerca drammaturgica, che esalta il clima notturno, plumbeo e sepolcrale della partitura.

È un'impostazione che sembra sposarsi a meraviglia con la decisione – oggi caduta in desuetudine – di Stefano Ranzani, chiamato a dirigere lo spettacolo: pronto a rinunciare alla versione originale praghese a vantaggio di una contaminazione con quella viennese del 1788, che si conclude quando don Giovanni «si sprofonda», mentre «il foco cresce» e «tutti gli altri: guardano, metton un alto grido, fuggono, e cala il sipario.» La versione licenziata da Mozart per il Burgtheater della capitale absburgica non è priva di significative conseguenze drammaturgiche. Sul piano più squisitamente musicale, infatti, alcune arie sono modificate (don Ottavio intona «Il mio tesoro intanto» al posto di «Dalla sua pace», nel primo atto; Elvira vede modificata la grande scena che culmina in «Mi tradì quell'alma ingrata»); ma soprattutto viene soppresso il sestetto finale, in cui i personaggi superstiti enunciano la morale, «l'antichissima canzon» che mira a ristabilire l'ordine costituito dopo la subitanea scomparsa del libertino. L'eliminazione della chiusa è a sua volta funzionale ad un atteggiamento moralizzatore, di chiara impronta controriformista, che trova riscontro sin dal titolo adottato in occasione della prima viennese, Il dissoluto punito o sia Il don Giovanni, che pospone l'indicazione del ruolo eponimo allo scopo didascalico del dramma.

È interessante l'idea del direttore milanese di rifarsi a quest'edizione, rimasta in repertorio per tutto il corso dell'Ottocento più romantico e preferita, per ragioni diverse, anche da un musicista come Mahler o da un filosofo come Adorno. Certo il dramma assume una connotazione più corrusca, diventa una corsa verso gli abissi del finale tragico, vive – a ritroso – di una luce che Ranzani vuole lunare eppur nitida, quando adotta tempi rapidi, scansioni febbrili e imprime all'opera un'atmosfera cupa, sferzante, ulcerante. E questo si ripercuote tanto sui recitativi – Giacomo Gati fornisce un pregevole sostegno al fortepiano – quanto sui due finali d'atto, con una menzione particolare per il primo, in cui sono realizzate in maniera ideale le impervie indicazioni mozartiane, che prevedono la presenza di tre orchestre sulla scena; tanto sulle sonorità dell'orchestra, adusa ad un suono pieno e riverberato piuttosto che secco e settecentesco, quanto sugli interventi del coro, affidato alle accorte indicazioni di Piero Monti.

Sul palcoscenico agisce una compagnia con alcune punte di diamante, che rendono questa edizione palermitana sicuramente in grado di rivaleggiare con quelle che l'hanno preceduta, fino all'ultima, del 2002, in cui l'agile regia di Maurizio Scaparro riannodava le fila del dramma giocoso con la tradizione della Commedia dell'Arte, nelle indimenticabili prove di Michele Pertusi, Anna Caterina Antonacci, Eva Mei e Raúl Giménez, tutti diretti da Gabriele Ferro. Quest'anno il pubblico palermitano ha scoperto il «cavaliere estremamente licenzioso» di Carlos Álvarez, al suo debutto siciliano. Il baritono andaluso, che ha già interpretato il ruolo con grandi direttori (tra gli altri Riccardo Muti), perfettamente si adegua alla scelta di Ranzani: è interprete istintivo e volitivo, a tratti perfino granitico, forse privo del guizzo della follia, del genio e della sregolatezza, ma capace di diventare centro focale intorno a cui ruota l'intera vicenda. Ha vocalità piena, sonora, saldamente impostata sul fiato, ed è un don Giovanni di piglio quasi verdiano, pronto ad andare fino in fondo al vortice del desiderio. Lo asseconda il Leporello mercuriale di Matias Tosi, quasi un fool shakespeariano onnipresente sulla scena, che ha però timbro fin troppo chiaro e, con il procedere dello spettacolo, denuncia segni di affaticamento che rendono meno incisivi i suoi interventi nella scena del cimitero e nel finale ultimo.

Di spicco il terzetto femminile, capeggiato da Maija Kovalevska, che tratteggia un'Elvira luminosa e pugnace, limpida nelle colorature (soprattutto nella monumentale Aria di furore del secondo atto) e pronta a scolpire in maniera drammaticamente contrastata i recitativi. Rocio Ignacio è Anna, ruolo forse ancora da maturare per una voce relativamente piccola – ma musicalissima – e povera di armonici. Con grande intelligenza, tuttavia, l'artista sivigliana costruisce un personaggio sopraffatto dagli eventi, sedotta e abbandonata, utilmente supportata (sopportata?) dal don Ottavio di Tomislav Mužek, che non ha più l'esilità del tenore di grazia e per questo affronta con il giusto temperamento eroico le sue arie, senza rinunciare alla seconda, «Il mio tesoro intanto», espunta dalla versione praghese. Tutti e tre concorrono a definire, nel celeberrimo Terzetto delle maschere, un punto di arresto di metafisica trasparenza, snodo essenziale prima che l'azione precipiti verso la catastrofe. Completano il cast Barbara Bargnesi, Zerlina carnosa e carnale, seducente e spigliata, di notevole maturità scenica e vocale, con il sapido, consistente Masetto di Biagio Pizzuti. Nel ruolo strategico del Commendatore, Michail Ryssov fa emergere la morbidezza di uno scuro velluto sonoro, squadernando le profondità degli abissi.

Ed è proprio a questo finale che punta, sin dal principio, lo spettacolo impaginato da Lorenzo Amato, che fa tesoro dell'impianto scenico girevole di Angelo Canu. Il portico di un palazzo, infatti, occupa il primo piano o lo sfondo, diventa interno o esterno di un'inarrestabile fuga verso la morte, di un lugubre carillon illuminato dalle luci livide e spettrali di Alessandro Carletti. Non mancano intuizioni d'indubbia efficacia (dalla Canzonetta del protagonista, che non viene indirizzata alla cameriera di Elvira ma ad un carosello di figure femminili, alla gravidanza di donn'Elvira, decisa a palesare a tutti «le tue [di don Giovanni] colpe ed il mio stato» per sventare le conquiste dell'amato), mentre meno convince la commistione di epoche e stili, dal Settecento del libertino alle nozze contadine in pacchiani abiti contemporanei (i costumi, fin troppo sgargianti, sono firmati da Marja Hoffmann), tra ritratti selfie e balli di gruppo che ironizzano sul minuetto danzato in casa di don Giovanni. La somma di singole illuminazioni, purtroppo, non perviene ad un'interpretazione coerente di uno tra i titoli più impervi dell'intero repertorio lirico. Ma forse proprio questa è la sfida del capolavoro mozartiano: illuminarne alcuni aspetti, prima che la notte inghiotta i personaggi, è già tanto: perché poi sarà la solitudine di vite comuni, lontane dall'euforia dell'eccesso, dal fascino della perdizione, dal nero che avanza e tutto travolge.

Giuseppe Montemagno

6/6/2014

Le foto del servizio sono di Franco Lannino-Studio Camera.