RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Gaetano e Pasquale a Rovigo

Spesso si tende a ricordare un compositore per pochi titoli stabilmente in repertorio a fronte di una produzione sterminata. Gaetano Donizetti è uno di questi: più di settanta melodrammi, sinfonie, musica da camera, musica sacra (tra cui uno splendido Requiem)… e la memoria assicurata ai posteri da una manciata di opere: certo, non è abbastanza, ma è pur sempre qualcosa, si potrebbe dire. L'augurio (e la speranza) è di poter riscoprire, grazie ad adattamenti convincenti di queste poche opere rimaste famose, un autore che giustamente è oggi considerato il maggior operista italiano prima dell'avvento di Verdi. E, a giudicare dal Don Pasquale andato in scena al Teatro Sociale di Rovigo domenica 25 febbraio 2015, la speranza è concreta e l'augurio ha da inverarsi.

Il Don Pasquale, del novembre-dicembre 1842, è la terzultima opera di Donizetti (seguiranno ancora Maria di Rohan e Dom Sébastien, entrambe del 1843) e uno degli ultimi esempi di opera buffa, intrisa di una sensibilità che la allontana dalla giocosità ridanciana dei lavori alla Paisiello o alla Cimarosa, e di cui Rossini avrebbe raccolto l'eredità evolvendola verso uno stadio superiore. Con Don Pasquale, infatti, l'epoca dei personaggi rossiniani è ormai tramontata: memore del precedente Elisir d'amore, anteriore di esattamente dieci anni (1832), Donizetti costruisce personaggi umani, verosimili, con la sola eccezione di Norina nei panni della falsa Sofronia, e con reazioni e sentimenti nei quali il pubblico s'immedesima molto più realisticamente rispetto alle stereotipie dell'opere buffa di scuola napoletana: Don Pasquale, Ernesto, il Dottor Malatesta e Norina sono, sì, esemplificazioni (e, in quanto tali, parziali irrigidimenti paradigmatici, debitori alla lontana del teatro delle maschere) di indoli umane, ma, nello svolgimento del dramma, scardinano le regole di un teatro smaccatamente fittizio o ideale, per ricondursi ad un agire più vicino alla realtà dell'uomo. Questo artificio riesce efficace grazie ad una musica inventiva e ad un libretto brillante e ironico, a firma di Giovanni Ruffini (con contributi dello stesso Donizetti, quasi co-autore), che, per non infangare il suo nome, preferì attribuirne la paternità a Michele Accursi, uomo di lettere residente a Parigi (la prima del Don Pasquale avvenne il 31 gennaio 1843 al Théâtre del Italiens proprio a Parigi), ma del tutto estraneo alla genesi dell'opera!

Il pregio maggiore della regia di Francesco Bellotto (luci di Claudio Schmidt) è proprio quello di aver capito questo punto di forza della drammaturgia del Don Pasquale e di giocarci sopra con sorprendente vitalità, senza mai scadere nel prevedibile o annoiare. Perfino i mimi, le due fantesche e il maggiordomo di Don Pasquale, assumono una loro personalità: curiose di velleità femminili (i vestiti e le scarpe che Norina estrae dal suo baule) le prime, indifferente, ormai abituato ai capricci del padrone, il secondo (evidente il modello del Lurch di Ted Cassidy della Famiglia Addams). Le scene, di Massimo Cecchetto (Serena Rocco assistente scenografa), ritraggono l'interno di un elegante palazzo nobiliare, riflesso di un Don Pasquale amante dell'arte e della raffinatezza, a giudicare dal torso di statua in marmo vicino al camino (che si romperà in due nel corso dell'andirivieni dei servitori), da una nutrita quadreria (che si perde lungo i corridoi dipinti sullo sfondo trompe l'œil da Paolo Libralato) e dalle stoffe lussuose che rivestono poltrone, sedie e scanni (scene della Fondazione Donizetti di Bergamo, attrezzeria della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia). Meno efficace invece la rappresentazione del giardino di Don Pasquale: dopo aver fatto lentamente calare il fondale dipinto, a rappresentare il crollo dell'ordine, della dorata perfezione della casa dopo l'arrivo della falsa sorella di Malatesta, le pareti rimangono nude, di un grigio cemento, distanti da un'ambientazione a piante e frascami atti a celare le moine di Norina ed Ernesto.

I costumi, realizzati dalla sartoria teatrale Bianchi di Milano su modelli di Cristina Arceti, contribuiscono in maniera fondamentale alla caratterizzazione dei personaggi. Don Pasquale, in completo beige con panciotto, cravatta e cappello, è il perfetto borghese tronfio e sicuro di sé, con discreti e comici tocchi caricaturali quando vede venir meno la sua autorità (nella sua stessa casa!). Ernesto è un artista bohémien spiantato e sognatore, con tanto di basco alla francese e blocco da disegno sotto il braccio, che non esita ad usare la statua come appendiabiti e a disegnare, copiando dal vivo una delle varie opere d'arte in casa dello zio. L'elegante Malatesta, in completo scuro, fa capire da ogni sua mossa di essere un furbacchione di prima categoria. Norina è perfetta in un abito ottocentesco che esalta la sua presunta innocenza e ingenuità, non prima di arrivare in scena con un baule pieno di vestiti alla moda. Il Notaro (Luigi Maria Barilone, anche assistente regista) è un paparazzo con pantaloni a zampa d'elefante, baffoni e macchina fotografica anni '70. L'insieme dei caratteri regge e diverte, e alcune trovate, come il corteo funebre per il povero pesce avvelenato da Don Pasquale all'inizio del II atto (sulle note introduttive dell'aria di Ernesto) denotano ironia e un uso intelligente della psicologia teatrale.

Sotto la bacchetta di Viktor Ploskina, l'Orchestra Regionale Filarmonia Veneta dà vita ad una rappresentazione gradevole e attenta alle esigenze dei cantanti, senza mai ergersi a protagonista, ma piuttosto servendo fedelmente il soggetto. Paolo Bordogna è un Don Pasquale dal timbro scuro, voce matura, ferma, più adatta, per la verità, a ruoli drammatici. Enrico Iviglia (Ernesto) è un tenore di stampo chiaro,leggero, perfettamente calato nella parte, che Donizetti ha concepito ancora per una voce rossiniana. Si distingue non solo in Com'è gentil, forse il passaggio più famoso dell'opera, cantato fuori scena con una distinguibilissima sillabazione, ma anche in tutta l'opera e particolarmente in Povero Ernesto… Cercherò lontana terra, aria dal patetismo intenso e toccante. Più robusto il Malatesta di Christian Senn, cui va il pregio di una voce duttile, ora potente, ora ben modulata, nelle varie maschere che è tenuto ad indossare, ora apparente sostenitore delle trame nuziali di Don Pasquale, ora braccio destro di Ernesto e Norina. Gabriella Costa, poi, interprete di Norina, è forse la punta di lancia del cast, con una voce piena, espressiva tanto nel grave quanto nell'acuto, belcantista dotata di grazia e portamento vocale davvero apprezzabile. Convincente anche la prova di Luigi Maria Barilone (Notaro), sebbene confinato in un ruolo ridotto, e del Coro Lirico Veneto, diretto da Giorgio Mazzucato.

Christian Speranza

14/4/2015

Le foto del servizio sono di Leonardo Battaglini.