RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Nell'ora della rivolta contro Atene ladrona

 

Melissa, la donna di Microscopide? E Golosistrata, la moglie dell'oste?

Una macchia di femmine.

Femmine dal volto infarinato e intabarrate, femmine in attesa di cibo per la mente, affamate di pane di libertà. Perché la donna – si sa ma non si dice – la donna è un “noubistico”, un sospettato e temuto pianeta d'intelligenza. Una macchia di femmine e femmine alla macchia, pronte ad osare l'inosabile: occupare il Parlamento, Sant'Artemide!

E così vogliono, tramano, fanno le Ecclesiazuse, le “Donne al Parlamento” di Aristofane, in scena al Teatro antico di Siracusa ogni “lunedì della commedia” così come vuole anche quest'anno la stagione dell'Istituto nazionale del Dramma antico. La regia è di Vincenzo Pirrotta (anche in scena nei panni di Blepiro), la traduzione di Andrea Capra. Protagonista è Anna Bonaiuto ovvero Prassagora (una sorta di cugina di Lisistrata) saggia governatrice scenica di ribellione che all'euforia della commedia si concede con misura d'interprete, senza gigionerie di maniera e cedimenti di ritmo.

Al suo fianco, un'invincibile armata di femmine (ma invincibile davvero, alla faccia di Filippo II di Spagna), le “soliste” (Doriana La Fauci , Carmelinda Gentile, Elena Polic Greco, Antonietta Carbonetti, Clelia Piscitello, Amalia Contarini) e soprattutto un formidabile Coro di “cantattrici” capaci di tutto o quasi. Pirrotta ha saputo orchestrarle con sfrenato rigore in una singolare, dotatissima chorus line, con un occhio al téatron inteso come luogo di discussione dell'esistenza (a ciò guardava quel «Noi cambieremo il mondo, e se non ora, quando?») ed un occhio al teatro totale (danza, parola e musica, quest'ultima, composta da Luca Mauceri, era a tratti in odore di Nuova Compagnia di Canto Popolare ma attingeva ad etnos di vario segno).

Chissà se è perché il nostro presente (il nostro Paese, specialmente) è profondamente segnato dalla commedia e dal grottesco, da Fiorilli (dei Comici dell'Arte), a Fiorito (detto “er Batman”). O magari perché il metteur en scène che vi si accosta – da Ronconi a Pirrotta passando per Roberta Torre – ha una paura giurata dell'ovvio, del becero, della gag pecoreccia, della satira facile facile modello Bagaglino, in una parola, della volgarità. Certo è che il “riso alla greca” sembra essere ancora una leccornia imperdibile e, nel caso in ispecie, è stato a nostro avviso il piatto forte della stagione 2013 della Fondazione Inda.

“Atene ladrona” o “Atene è il Paese che amo” o persino il pericoloso frinire di “Mandiamoli a casa” per non parlare di Burkezio, Scilipotide, Culderoli, Maronide, Marimontide, le Figlie della Topa dal vago sapore e sentore di Ventennio… A pensarci bene, se da un canto erano assolutamente e artisticamente legittimi ma opinabili i manifesti della Rane ronconiane di una decina d'anni fa che tanto (e significativamente) fecero infuriare il grezzo luogotenente siciliano del Cavaliere di Arcore, dall'altro, il gioco di parole, la parodia verbale, l'efferato calembour sono, oltre che ben leggibili e irresistibili, decisamente contestuali ed armi drammaturgiche e sceniche forse più solide dell'immagine.

E ha fatto bene Pirrotta ad intervenire sulla lingua “linguacciuta” della komoidìa (non era male ribattezzare “Evasore” il “Cinico” dell'originale, qui reso con grande efficacia da Antonio Alveario) come pure nel finale, che è questione seria con cui tutti i canovacci di Aristofane devono fare i conti. In questa sede, infatti, l'imprevedibile intrattenimento e il pugno nello stomaco coincidevano nella “primavera” delle donne velate che “rivoltano” il temporaneo burqa bleu elettrico in colorato mantello di libertà.

E se è vero che la commedia ha sempre bisogno del vaso da notte e del mestolo, eccovi serviti con un menu succulento e allusivo («Presto, veloce: afferra la salsiera!») e con la melodia escrementizia, intonata (ma non è esattamente la gola l'organo principe) da Blepiro. Il poveretto (a cui la moglie “parlamentare” aveva rubato gli abiti nottetempo sicché si trova in mantellina, sandali con zeppa e tanto di zucca pelata) è colto da un'urgenza defecatoria. Ma, a suon di musica e con il deretano garbatamente danzante e rivolto alla cavea, egli invoca la Signora dei Travagli (pare che una pera gli avesse bloccato il… passaggio) senza mai scivolare in ovvie slapstick comedy di comodo . La stessa cura è posta nel fallo gigante (appena in odore di Woody Allen) che diventa l'oggetto/soggetto del corteggiamento da parte di vecchie rancide e vogliose a cui una nuova par condicio dà diritto di precedenza sulle giovani e che l'Evasore “cavalca” con la grazia trasfigurata di un paladino dell'Opera dei Pupi.

Perché le risate sono come i parenti che sono come le scarpe. Più sono “strette” e più fanno male.

Carmelita Celi

14/6/2013

Le foto del servizio sono di Franca Centaro e di Carmine Aviello.