RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Beyond the reach

 

Gigione, faccia “facciosa”, esageratamente cattivo.

Eccessivo se spara e se mangia, quando ghigna e quando non fa una piega.

E inspiegabilmente incomprensibile – l'unico, nel cast – in quel suo slang arrotato e arrotolato su se stesso forse nel tentativo d'apparire più vilain che mai, fino a masticare un “chu-cha” per dire “It's your job”.

Fatto sta che lui può fare quello che vuole e lo fa un bel po', Michael Douglas - volto plausibilmente provato dal cancro di qualche anno fa e dalle dissolutezze varie che avevano preceduto la malattia ma la zazzeretta grigio-bianca resiste ancora. E fa e disfa a maggior ragione in un film di cui è anche produttore oltre che protagonista – con il giovane Jeremy Irvine, belloccio alla Matt Demon ma tutto sommato convincente - ovvero Beyond the reach, un “adventure thriller” di Jean-Baptiste Léonetti, film in concorso alla sessantunesima edizione del Taormina Film Festival voluto e guidato dalla general manager Tiziana Rocca.

È decisamente “fuori portata” (questo significa Beyond the reach anche se l'Italia ha optato per il solito titolo piatto e quanto mai inflazionato di Caccia all'uomo, capirai che novità) il Mojave Desert in California. Terra e pietra, pietra e terra e un tetto di sole abbacinante in cui si consuma il testa a testa – e il corpo a corpo – tra il cinico e “unforgiven” cacciatore e uomo d'affari Madec (Douglas) e il geologo fresco di college, Ben (Irvine), due mondi opposti e due inconciliabili Weltanschauung che il Caso, crudele per natura e per sceneggiatura, vuole insieme. Prima su un fuoristrada sciolto da 50° all'ombra (a trovarla) poi, in un deserto “inaccessibile” che si trova a miglia e miglia dall'autostrada.

Il cacciatore – nomina sunt consequentia rerum – ha ottenuto l'inconsueto permesso d'abbattere la bighorn sheep, la pecora delle Montagne Rocciose e perché l'impresa vada a buon fine, assolda il brillante geologo, giovane ma già segnato dalla morte dei suoi familiari che si sono curiosamente “persi” in un deserto che in realtà avrebbero dovuto conoscere a menadito, perciò il perfido Madec liquida la disgrazia con un “Si sono suicidati”. Ed ha una fidanzata di radioso avvenire, Ben (Hanna Mangan-Lawrence, anche lei attrice di talento), sicuramente innamorata di lui ma provata da un'attesa chissà quanto lunga e chissà quanto facile da reggere. Il ragazzo è studioso integerrimo ma è a corto di quattrini per questo accetta non senza riluttanza “la migliore offerta” dell'infido Madec che lo incastrerà una volta di più con un tragico imprevisto. Infatti, credendo che si tratti finalmente dell'agognata bighorn sheep, Madec fa invece fuoco su un anziano prospettore minerario che Ben riconosce come l'autorevole, amato veterano del territorio. Il ragazzo pretende, in lacrime, di portare il corpo senza vita in città e denunciare onestamente l'incidente alle autorità ma Madec non può che “consigliargli” (leggi: intimargli) d'insabbiarlo nell'accezione più letterale del termine. Ben finge di subire la scelta ma ne fa di tutti i colori e di tutti i calori per far prevalere la giustizia e l'altro, nemmeno a dirlo, innesca un'estenuante, torrida caccia all'uomo (giacché c'è il titolo, consumiamolo). E se il ragazzo non ci sta a montare il falso incidente, Madec lo costringerà a vagare per il Mojave Desert - Léonetti fa cocktail discutibile ma appetitoso di John Ford e Sergio Leone – ma che resti in mutande, scalzo e con i piedi pericolosamente piagati. Lo “bracca” senza sosta (mentre lui si prepara un Martini con olivetta in pieno deserto) come fosse una belva da logorare prima di finirla a pallettoni.

Tratto dal romanzo di Robb White Deathwatch (veglia funebre, quando si dice parlar chiaro e fin da subito) del 1972, il film vorrebbe essere in odore di Non è un paese per vecchi ma l'odore più forte è quello del sangue di certo splatter delle ultime sequenze mentre rammenta – con le dovute differenze – Killing season di Mark Steven Johnson, il film “da paura” con Robert De Niro e John Travolta (prestazione lodevolissima per entrambi) di un paio d'anni fa. Un delirio a due, anche quello, in cui tra il veterano americano della guerra in Bosnia (De Niro) e Kovac (Travolta), angelo vendicatore della milizia slava, si consuma un duello “beyond the reach”, perché anche in quel caso consumato tra montagne che separano i due dal resto del mondo ma a temperature assai più basse.

A un passo dalla fine, un gioco di incubo-realtà, andata e ritorno. Ben l'ha avuta vinta su Madec, lo sceriffo gli ha creduto, ma il cattivone riesce a darsela a gambe e lascia la stazione di polizia montando su un elicottero. Ebbene, riesce a trovare il ragazzo che, nel frattempo, è tornato dalla fidanzata. Il perfido s'introduce a casa di lei nottetempo e gli punta addosso il suo inseparabile compagno. Ma no, era un incubo. Ben si sveglia sudato, la pelle del volto massacrata dal sole e rassicura se stesso e noi. Fiuu, meno male. Ma no. L'incubo non era che un sogno premonitore. Douglas-Madec infatti è lì per davvero, nella loro camera da letto! Se ne resta seduto in penombra ma è pronto a scattare per farli finalmente fuori tutti e due…Ma, non si sa come, direbbe l'Uomo del Càvusu, è lei a far fuoco con un'arma tirata fuori da chissà dove. Sarà che i letti non sono più quelli di una volta.

Ma il pubblico in sala ridacchia, segno che vuole esorcizzare la suspense e segno che “la grande illusione” colpisce ancora. E colpisce comunque. Anche se terrosa, in salsa californiana e con un pizzico di sana denuncia sociale.

Carmelita Celi

17/6/2015