RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

La sciagurata favola degli Atridi

Dissestata, diroccata, pericolante e pericolosamente intatta nella sua arroganza di potere giacché una scala infinita la “stacca” da terra e la taglia in due come accadrà, alla fine, ai due nuovi sovrani, Clitemnestra, che di Agamennone è vedova e assassina, ed Egisto che del re è odioso e odiato cugino-rivale.

Ecco la reggia di Micene in Elettra di Sofocle per la regia di Gabriele Lavia che ha appena inaugurato il 52° Ciclo di Spettacoli classici dell'Istituto Nazionale del Dramma Antico dove rimane in scena al teatro antico di Siracusa fino al 19 giugno, in pacifica alternanza con Alcesti di Euripide.

Ferrosa, riarsa, wasted land senza tempo né storia, l'inchiodante, abbacinante macchina scenografica di Alessandro Camera è punteggiata da carcasse che sembrano riemergere da un oceano di ruggine e pietra, forse tesori seminascosti perché usurpati o forse vere e proprie bare, “necessari” presagi di morte.

Non è certo un'idea nuova quella di scorticare la tragedia greca da riferimenti epocali, tuttavia rispetto alla frequente, datata tendenza a farne un dramma borghese di fine Ottocento o, peggio, liquidarla in horror dell'ultima ora, “allungare” il Mito ad un desolato futuro vicino e lontano, senza contorni e vagamente fantascientifico, è la terza via che probabilmente più si ricongiunge all'antico, proteggendolo da romantiche “illustrazioni”.

Meglio una semicircolare The road alla Mc Cormack.

E chiome incolte, se maschili, zaini e anfibi per vestire il pedagogo ed Oreste (costumi di Andrea Viotti) quando, in apertura, il primo mostra al secondo i luoghi sospirati nell'esilio e lo invita all'azione: vendicare la morte del padre Agamennone uccidendone gli assassini dunque sua madre e l'amante. Il momento drammatico della decisione è già tutto in questo incipit d'incredibile forza evocativa e d'urto, una moderna filosofia della scelta che tanto cara dovette essere a Sartre se la scelse per avviare il suo dramma post-sofocleo, Le mosche.

Ipercinetica spesso, spesso urlata e ancor più spesso ansimante, ecco l'Elettra di Federica Di Martino, ecco la pazza reietta che vive nel regno della menzogna, strozzata tra la volontà di punire e la certezza del ritorno di Oreste. Hic et nunc, Elettra è una donna letteralmente piegata in due giacché la Di Martino soffre la sua “personale” tragedia in una postura costantemente ad angolo retto, quasi trovasse lì una dimensione secondo cui le distanze si annullano – a differenza della sorella Crisotemi che menziona il tempo trascorso. Per Elettra, il passato è sotto gli occhi e l'eccidio di Agamennone resta l'unica realtà. Più che tragica è iraconda, più che sussurrata è gridata, più che vestita è pietosamente coperta da stracci neri: femmina con vocazione da maschio, rivendica una zazzeretta corta quasi ton-sur-ton con il colore della scena che l'abbrutisce ed imbruttisce non poco, unica donna “mutilata” in mezzo a chiome infinite. Come quelle sciorinate dalle “cantattrici” del Coro (le musiche di Giordano Corapi sono ora tecno, ora nudamente percussive, ora con fraseggio vagamente in odore di Coriolano) che vestono abiti neri “sporcati” di rosso. È folto, il Coro di donne, forte delle giovani allieve dell'Accademia d'Arte del Dramma antico (ne sono maestri Francesca Della Monica, Ernani Maletta) guidate da Giulia Gallone (corifea) e dalle prime coreute Flaminia Cuzzoli, Giovanna Guida, Giulia Modica, Alessandra Salamida, Simonetta Cartia. Su quest'ultima, ci concediamo un inciso. Decisamente addomesticata al tragico (e al comico, se occorre), la Cartia da anni non deve più dimostrare nulla a nessuno in termini di intensità drammatica e di non comune talento vocale, specialmente. Perciò, la buttiamo lì, forse sarebbe stata lei una convincente, appropriata, appassionata Elettra se non fosse che - per un'innata, vocata, sicilianissima vocazione alla “ospitalità” – i suoi conterranei seguitano a negarle ruoli da “solista”.

Altra chioma quella di Clitemnestra che ha volto e voce di Maddalena Crippa, vestita da una fulva, generosa coltre di capelli: non è più avvolta nei manti rosso fuoco paurosamente cari all'Orestea ma è tratteggiata da diverse gradazioni di viola, a metà tra stola quaresimale e sangue raggrumato. È d'imponente, innegabile presenza scenica, la “regina” Crippa, qui per fortuna prende le distanze dai toni e gli accenti di Medea brianzola di qualche anno fa ma dispiega una gestualità spesso vistosamente ieratica, incedere teutonico da Brunilde e ghigni satanici da Grimilde.

Suo compagno di vita e di morte è Maurizio Donadoni. Il canticchiare sinistro e grossolano con cui il suo Egisto entra in scena (“Povera Elettra, sei rimasta sola!”) tentando molestie alle donne del Coro, lo scopre sottomesso agli istinti peggiori. Per lui, piccolo gerarca dalla lunga chioma da pop star di progressive rock anni Sessanta, la vita è godimento personale, ed egli si conferma soggetto e vittima condiscendente di tutte le tentazioni. Alla fine, nel fulminante dialogo con il suo carnefice, Oreste (che è Jacopo Venturiero mentre Massimiliano Aceti è Pilade) che la traduzione di Nicola Crocetti ha appena asciugato, si comporta da bestia che sente l'odore del mattatoio. Il “reuzzo” dei poteri periferici e dispersivi (contro il potere centrale e illuminato di Agamennone) che mirano al proprio vantaggio, ne chiede un altro, l'ultimo. Quello di non essere ammazzato dentro al palazzo, che è fato sinistro e cieco, ma sotto il cielo, ché, fuori, c'è ancora libertà nella morte.

La Crisotemi di Pia Lanciotti rivela, qui, un'insolita vitalità, un appeal che difficilmente si concepisce per la figlia conciliante di Clitemnestra – mite soltanto per convenienza, in realtà – ma che risulta decisamente indovinato perché arricchisce non poco il tragico incontro/scontro con la sorella scatenata.

Ma è il pedagogo di Massimo Venturiello a farla da padrone.

Epico e misuratissimo, animoso e animato, l'aio – che in fondo qui assolve all'ambitissima funzione di nunzio - sceglie la narrazione e non la declamazione recuperando così il mythos, la sciagurata “favola” degli Atridi che sfugge fatalmente di mano come, a Clitemnestra, i fantasmi del suo sogno. Per Venturiello, peraltro, a scattare non sono gli innumerevoli applausi di sortita che quasi sempre hanno lo scopo d'allentare la tensione ma l'unico, autentico applauso a scena aperta.

Carmelita Celi

17/5/2016

Le foto del servizio sono di Maria Pia Ballarino e Franca Centaro.