RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


L'uomo è sogno d'ombra

Sin dalla prima metà del Novecento alcuni grandi narratori europei hanno compreso che l'arte, sia essa pittorica, musicale o letteraria sembra aver esaurito ogni possibile via di originalità, e che comunque tutta la nostra cultura si è come estenuata, illanguidita sino a diventare, per dirla con Jorge da Burgos, solo una “sublime ricapitolazione”. Due grandi romanzi in lingua tedesca parlano, ciascuno a suo modo, di questa crisi: Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse e il Doctor Faustus di Thomas Mann: nel primo si parla di un gioco sublime giocato da una superelite di intellettuali, la Castalia, gioco che tutte le arti concorrono ad abbellire, a rendere più prezioso, sino ad allontanare assolutamente i suoi giocatori non solo dal mondo, ma dalla loro stessa umanità. Il secondo tratta invece in maniera esplicita non solo del riprecipitare dell'uomo nella barbarie diabolica (metafora sin troppo scoperta del nazismo), ma anche e soprattutto di una nuova musica, nata dal disfacimento della musica tonale, ormai giunta alle massime vette delle sue possibilità: la musica dodecafonica, quasi una metafisica del suono, dove l'orecchio non riesce a posare da nessuna parte, gigantesca meditazione della musica su se stessa. E l'opera che Adrian Leverkühn, il novello Faustus che stringe un patto col diavolo pur di poter giungere al di là dei limiti della composizione, donando in cambio la propria anima ma anche l'impegno a non amare nessuno, compone poco prima di morire ha uno strano titolo, Apocalypsis cum figuris.

Ad un gioco sublime, lontano eppure ancora vicino a noi, fa pensare Majorana, mistero in due scene, opera teatrale in un prologo e due scene di Paolo Manganaro, recentemente edita per i tipi della Carthago. Tutta la prima scena è giocata su un gioco di ombre, che si aggirano in uno strano hotel sull'abisso, vegliato da due portieri che ricordano quelli di Vor dem Gesetz di Franz Kafka, con in sottofondo il Wozzek di Alban Berg, di ombre che ripercorrono una serie di eventi, in una sorta di ricapitolazione che possa, dopo quasi ottant'anni, aiutare a comprendere non solo che cosa realmente sia accaduto a Ettore Majorana, ma anche il perché, gettando al tempo stesso qualche sprazzo di luce su colui che è stato senza dubbio uno dei più grandi geni della fisica e insieme un uomo oscuro, ombroso, rampollo di una stirpe di grandi intellettuali segnata a propria volta dal terribile caso del bambino bruciato nella culla.

E chiaro, a chi rilegga La scomparsa di Majorana di Leonardo Sciascia, che la ricostruzione dello scrittore siciliano è un po' come l'esperimento del gran naviglio galileiano: è spettacolare, avvincente, ma lascia in sospeso e lacunoso molto più di quel che spiega, e proprio perché parte da un assunto arbitrario, quello cioè che Majorana, oscuramente conscio che la sua genialità lo condannasse ad una fine precoce (come Wolfgang Amadeus Mozart o Évariste Galois, per intenderci), avesse voluto scomparire proprio per sfuggire a tale destino. Ipotesi azzardata, manniana (come non ricordare la Rachele presaga della sua breve esistenza in confronto a Giacobbe che sa di avere davanti una vita lunghissima?), alla quale il giovane fisico avrebbe opposto una sparizione voluta, un vivere nella morte civile, e il rifugiarsi in un convento certosino, ottenendo in tal modo due risultati: sfuggire al destino e al contempo alla società, alla famiglia e ai suoi colleghi, e ritirarsi in una solitudine che in fondo avrebbe cercato da sempre.

Manganaro accetta invece di non dare soluzioni, e proprio sulla ricostruzione dell'enigma gioca il lavoro, non formulando ipotesi, ma narrando, e offrendo al contempo una nuova angolatura al mistero Majorana, visto forse per la prima volta non solo a confronto con i colleghi e con lo stesso Sciascia, anche se ciò occupa una parte molto densa e importante della prima scena, ma con se stesso, e soprattutto con ciò che egli stesso intendeva come scienza.

Sì, perché il merito più grande di questa pièce, oltre all'ardita costruzione teatrale che mescola le tecniche del teatro dell'assurdo e di quello esistenzialistico a quelle del dialogo platonico ma soprattutto leopardiano delle Operette Morali, e si pensi in particolare al Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, il merito più grande, si diceva, è quello di aver focalizzato l'attenzione sul significato della scienza per Majorana: la teoria più accreditata vuole Majorana scomparso, volontariamente o meno, in relazione ai suoi studi sull'atomo, o perché eliminato dagli inglesi, o al servizio dei tedeschi, o suicida per salvare l'umanità dall'atomica. Manganaro gli fa invece dire esplicitamente: “La bomba, o qualcosa di simile cui si pensava, non è la scienza”. Il che, implicitamente, significa che l'aspetto sperimentale è appunto solo un aspetto della fisica, cosa del resto ribadita appunto da Majorana: “… non ero così sperimentale come Fermi”. Lo scienziato siciliano viene in certo senso posto al di là del problema bomba atomica, e postulato quasi come prototipo dello scienziato speculativo, protagonista di quella delittuosa innocenza della scienza che si appaga solo di ricercare, chiudendo gli occhi magari sulle conseguenze delle proprie ricerche, quasi “un dio bambino” che “gioca a dadi col mondo”. Si adombra qui, è certo non è un caso che la prima scena, dedicata al Majorana che si confronta con Sciascia, Fermi e Heisenberg, rechi come sottotitolo il manniano Apocalypsis cum figuris, il problema cruciale dell'epistemologia e al tempo stesso della filosofia morale: può la scienza essere pura? Può essere innocente sempre e non pensare alle conseguenze di certe scoperte? E se no, cosa deve fare lo scienziato? Continuare a ricercare, pubblicare le proprie scoperte o scomparire? Esiste insomma, ma soprattutto è eticamente possibile, una scienza che si esaurisca nel giocare con se stessa come i giocatori di perle della Castalia, di quella Castalia il cui Gran Maestro, proprio come si suppone abbia fatto Majorana, avrebbe trovato la morte per acqua?

La seconda scena del mistero, dal titolo Congetture con figure, è come un affacciarsi sull'abisso delle ipotesi sulla scomparsa di Majorana: una serie di figure raccontano le singole versioni che gli anni hanno accumulato, senza dare, perché non è possibile, alcuna soluzione, giacché, forse, il mistero è meglio che resti tale. E un lento, malinconico ricapitolare, che trova in se stesso un nuovo enigma: “Ma Ettore, prima che con la potente tecnica delle macchine, ha posto in segni matematici la possibilità di un nuovo universo”.

Cosa avrebbe intravisto Majorana? Dove e perché avrebbe deciso di fermarsi? Il suo mistero è una possibile risposta al problema etico fondamentale della scienza? Scomparendo ha deciso di rimettere centinaia di anni indietro l'orologio della fisica o forse ha voluto semplicemente trovare il modo, novello Faust, di baloccarsi per tutto il tempo che gli restava da vivere con la teoria per il solo gusto di farlo, per conoscere, per dirla con Goethe “il mondo, che cos'è che lo connette nell'intimo… senza frugare più tra le parole”?

Giuliana Cutore

26/7/2015