RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

Quando il flauto magico non è di Mozart

Mentre al Regio di Torino Die Zauberflöte miete successi di pubblico e critica, a poca distanza, all'Auditorium Toscanini, un altro flauto, magico anch'esso, incanta il pubblico dell'Orchestra Sinfonica Nazionale: quello di Emmanuel Pahud, che, sotto la bacchetta del maestro Andrea Battistoni, ha presentato per la prima volta a Torino, nelle serate del 16 e 17 gennaio 2014, il Concerto per violino di Khacaturjan nella versione per flauto di Jean-Pierre Rampal. Fisico imponente, aspetto vagamente somigliante a Patrick Swayze, almeno dal nostro posto, fin dall'apertura Pahud sfodera una tecnica prodigiosa. Il turbinoso perpetuum mobile con cui attacca il primo movimento è un concentrato di vitalità irresistibile, presto seguito da passaggi di più pacata cantabilità (come lo splendido dialogo tra violoncelli e flauto), reso altrettanto bene. L'acme dell'intensità emotiva è toccata però nel secondo movimento, dove il solista avvolge le frasi musicali con dolcezza, diremmo quasi con amore, e ci fa sprofondare in zone di meditazione che a tratti toccano il sublime (complici anche gli intensi assoli di fagotto e clarinetto, rispettivamente di Andrea Corsi e Cesare Coggi). Al termine del terzo movimento – un rondò di rustichezza contadina dove la spettacolarità torna protagonista con pirotecniche volate – il pubblico della serata del 17, di cui riferiamo, è colto da un (giustificato) entusiasmo che si incarna in un «Bravo!» gridato non appena spenta l'eco dell'ultima nota. Agli applausi entusiasti e prolungati del pubblico, Pahud risponde con un encore di musica francese, Silence di Debussy (specificando egli stesso titolo ed autore: una finezza che pochi solisti frequentano, rendendo accessibile anche ai meno esperti piccoli gioielli musicali spesso ignorati e altrimenti irrintracciabili), dove lo stile debussiano è reso al flauto con filati delicatissimi e un perfetto controllo dell'emissione del fiato, soprattutto nel finale, che si spegne ai limiti dell'udibile, sottomettendo stavolta l'entusiasmo del pubblico alla contemplazione raccolta di quel momento di silenzio, sospeso e come avvolto nella crisalide dorata degli ultimi suoni, che ci permette di ricostruire, di trattenere l'essenza evanescente e malinconica dell'ascolto.

A degna cornice al Concerto di Khacaturjan, altri tre brani. Una notte sul Monte Calvo di Musorgskij, che ha aperto la serata, continua nel tempo ad essere di forte impatto emotivo. Per chi è cresciuto con Disney, rimane nella memoria la figura del demone Chernabog di Fantasia ; ma visioni così immaginifiche vengono tradotte da Battistoni in un'esecuzione a tratti confusionaria, quasi bandistica, e a una non sempre fedele adesione alle indicazioni del compositore (un esempio per tutti: i pizzicati dei contrabbassi, a inizio brano, eseguiti legati, quando in partitura non v'è traccia di legatura). Il gesto direttoriale indulge spesso nell'eccessivo, nel plateale (forse influenzato da quello di Noseda, uno dei suoi insegnanti), di cui non si comprende l'utilità. È senza dubbio un brano selvaggio, e come tale deve essere diretto: chi preferisce il fuoco all'eleganza sarà stato soddisfatto, benché possa esistere una direzione al tempo stesso infuocata ed elegante (Toscanini). Si è tentati di imputare questa esuberanza alla giovane età di Battistoni (classe 1987), che più avanti, ci auguriamo, potrà trovare un maggiore equilibrio: anche perché le sezioni più liriche, più lente, sono state dirette impeccabilmente: come la conclusione, notevole per la delicatezza dell'arpa (Donata Mattei) e per gli assoli di clarinetto (il già citato Cesare Coggi) e flauto (Giampaolo Pretto).

Un merito di Battistoni è senz'altro quello di aver introdotto, con pochi minuti di discorso dal podio, l'esecuzione di Vodnik (Lo spirito delle acque) di Dvorák, brano non così frequente e quindi ghiotta occasione di ascolto. Il pubblico, insolitamente giovane, avrà sicuramente gradito questo esser preso per mano e guidato nella leggenda del Vodnik, il crudele folletto acquatico del folklore boemo (il cui nome non a caso è stato attribuito ad un mezzo corazzato anfibio dell'esercito russo, il GAZ-3937 Vodnik) attraverso le note di Dvorák, che si riallaccia alla tradizione della “musica a programma”, con interventi molto evocativi della campana, per indicare il vespro, e della grancassa, a significare il bussare violento del Vodnik alla porta della fanciulla. Anche qui vi è la tendenza al pletorico nei passaggi d'insieme, seppur meglio gestiti rispetto al primo brano, e ad una buona resa del suono laddove la scrittura si fa più cameristica (notevoli i passaggi sibillini dell'oboe, che danno l'idea di brividi lungo la schiena).

Chiude la serata La grande Pasqua russa di Rimskij-Korsakov, una “ouverture su temi liturgici”, come precisa il compositore, nella quale emerge tutta la sua maestria di strumentatore. L'uso dei colori orchestrali è infatti notevolissimo, come pure l'impiego di diversi solisti (primo fra tutti il violino di Alessandro Milani), e, data la grandiosità dello stile compositivo di Rimskij, permette a Battistoni di dare il meglio di sé in vari punti (purché non si abbandoni a facili sporcature), come nella solennità dei tromboni, che paiono quasi un coro maschile, o nell'enfasi dello sviluppo centrale: ed è in questi passaggi grandiosi che ci sembra più convincente.

Christian Speranza

24/1/2014