RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Amarcord

Dario Fo e Renato Accorinti.

Per quelli come me, adolescenti o poco più all'epoca di Mistero Buffo, argomento al liceo di innumerevoli, appassionate diatribe tra comunisti e ciellini, questi ultimi allora visti come un incrocio tra Torquemada e la più perfida essenza del gesuitismo, l'idea di vedere ancora una volta entrare in scena Dario Fo non può non dare una sorta di tuffo al cuore, quasi un reimmergersi nei bei tempi giovanili, in quel dilatarsi del tempo dove ci si poteva smemorare di sé per ore e ore in un litigio politico, nella difesa della laicità, della libertà sessuale, magari nella polemica tra Agostino e Gaunilone, oppure in quella tra Newton e Leibniz, per poi tornarsene tranquillamente a casa, trovando un bel pasto pronto, la biancheria lavata e stirata, ma con la coscienza più pura dell'acqua di montagna, convinti come eravamo di aver fatto il nostro dovere di intellettuali.

Un Amarcord di periferia, un rimpianto più per la giovinezza trascorsa che per quelle infuocate battaglie ideologiche, che tali sono rimaste, se ci siamo potuti sorbire tranquillamente un ventennio berlusconiano, lo IOR, i preti pedofili, la BCE, la Merkel, i grillini e compagnia bella, senza sentire nemmeno la necessità, rispolverato tutto il nostro armamentario di intellettuali di sinistra, di scendere in piazza armati di buon senso, o almeno di smascherare sillaba per sillaba tutte le idiozie che ci hanno propinato dall'entrata dell'Euro a oggi.

Con questo animo svagato e proustiano la sottoscritta è entrata il 7 settembre al Teatro Greco di Taormina, ripetendo tra sé e sé battute in gramelot, rivedendo la faccia dell'antipatica ciellina alla lezione di storia della filosofia, e insomma con l'illusione che Dario Fo, col suo Lo santu jullare Francesco, avesse conservato intatta la sua carica polemica, dissacratoria, politica, ma soprattutto attuale, in grado di demistificare le menzogne del nostro tempo come un tempo demistificava quelle di un cattolicesimo oltranzista che combatteva una sterile battaglia di retroguardia contro il '68.

Sì, perché un tempo aveva un senso prendersela con la religione cattolica: era un modo di smuovere le coscienze, di sviscerare contraddizioni, di promuovere una laicità a tutto tondo, che trovava nella DC il suo più grande nemico.

Ma oggi? Oggi che la religione si è totalmente esteriorizzata, che senso ha ripercorrere contraddizioni ormai lampanti, che lo stesso papa Bergoglio denuncia col suo comportamento giorno per giorno? Che senso ha appiccicarsi al santo di Assisi per ripetere, mutatis mutandis, le stesse cose di più di quarant'anni or sono? Non capisce Fo che il vero nemico oggi è un altro? Non capisce che ben più altra presa avrebbe avuto, oltre un generico prurito di perbenismo, avrebbe suscitato nell'eterogeneo pubblico della cavea, telefonini in mano per tutto lo spettacolo, che applaudiva tutto solo perché lui è ormai un premio Nobel, se avesse usato la sua mente contro un certo Islam oltranzista, contro un certo concetto di Europa, contro una Germania sempre più somigliante a quella degli anni '30?

Un testo purtroppo datato, infarcito di luoghi comuni, che nemmeno la grande classe attoriale di Fo riusciva a vivificare dall'interno.

E, delusione massima, il sindaco di Messina, Renato Accorinti, annunciato dallo stesso Fo come la sorpresa finale, che giunge sul palco spiattellando una sorta di retorica laica, fatta di ossequi vari alla cultura, di baci alle pietre del teatro greco, il tutto naturalmente per avviare una questua per una biblioteca: più o meno quello che fa ogni politico, solo condito da un patriottismo cosmopolita infarcito di buonismo intellettualoide. E Dario Fo, che lo abbraccia, lo bacia, inneggia al disinteresse e alla sublime umanità del personaggio, finendo poi con una perorazione intrisa di autoincensamento per aver donato, a scopo di vendita di beneficenza, i clichè di alcune sue opere pittoriche. Ma Papa Francesco, a cui mi pare di capire era ispirata la pièce, non ha detto e ripetuto che non bisogna gloriarsi delle proprie buone azioni?

Giuliana Cutore

9/9/2014