RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

9/4/2016

 

 


 

61 e 62: ambo beethoveniano

Nel catalogo delle composizioni di Beethoven capita spesso di trovare pagine sublimi accanto ad altre più ordinarie. L'Op.61, ad esempio, il Concerto per violino e orchestra in re maggiore, del 1806, e l'Op.62, il Coriolan, ouverture in do minore, del 1807, sono incastonate fra un lavoro importante come la Quarta Sinfonia Op.60, e uno più modesto come il Trio per violino, violoncello e pianoforte Op.63, la trascrizione del Quintetto per archi Op.4, scritto dodici anni prima (1795), a sua volta derivato dall'Ottetto per fiati Op.103 (pubblicato postumo) del 1792! Operazioni commerciali per poter dare circolazione a pagine leggere, godibili e soprattutto remunerative (non di solo arte si nutre l'artista…).

L'Op.61 e l'Op.62 non potrebbero essere più diverse. Il Concerto è una pagina che a tutta prima delude l'ascoltatore in cerca di emozioni forti: l'effusione lirica qui sopravanza la portata eroica, e i temi cantabili del primo e secondo movimento ben si sposano con un finale che solo nella conclusione fa la voce grossa per finire col botto, limitandosi per il resto a proporre un tema grazioso e saltellante.

Nulla a che vedere con Coriolan, una pagina concisa, squadrata, di una secchezza e di una drammaticità che non ha niente da invidiare al primo tempo della Quinta Sinfonia (con cui condivide la tonalità d'impianto, cara al compositore), peraltro all'epoca già in cantiere da anni.

Il 17 ottobre 2019 (data funesta per gli chopiniani convinti, che ricordano la scomparsa dell'«Ariel del pianoforte»), all'Auditorium Arturo Toscanini di Torino, James Conlon ne offre interpretazioni molto convincenti, coadiuvato da un'Orchestra Sinfonica Nazionale (OSN) in forma smagliante. Si comincia con il Coriolan, brano che Beethoven scrisse per introdurre l'omonima tragedia in versi di Heinrich Joseph von Collin, poeta e segretario della corte viennese, incentrata sulla figura di Coriolano, generale romano che viene dissuaso nell'impresa di attaccare Roma a capo dei Volsci dalle parole della madre. Conlon decide di dare un'impronta se possibile ancor più scura di quel che Beethoven prevede: rinforza la schiera dei bassi estendendoli a otto. Prende un tempo decisamente teso, nervoso, vigoroso sempre, che esprime perfettamente il carattere battagliero e collerico del brano. È un Allegro con brio inteso alla Toscanini, tanto per intenderci, che, anche nei momenti di apparente distensione (il secondo tema, in mi bemolle, simbolo della madre che entra nell'accampamento e cerca di convincere il figlio a desistere), non fa calare mai la tensione generale del brano. L'orchestra segue, piegandosi a dovere alle indicazioni di Conlon che, da parte sua, dirigendo a memoria, come la scorsa settimana, testimonia un trasporto appassionato per questo autore e per questo brano.

Frank Peter Zimmermann (giù il cappello!), col suo Stradivari Lady Inchiquin del 1711, dà vita invece a una meravigliosa interpretazione del Concerto Op.61. Eleganza di suono e un buon gioco di compenetrazione tra solista e orchestra sono le qualità di punta di questa lettura, che incarna lo spirito etimologico del cum certare. L'equilibrio e il peso dei timbri è favorito anche dall'alleggerimento in orchestra dei bassi, che da otto passano a quattro, più che sufficienti: saggio accorgimento di Conlon per dare più spessore drammatico al Coriolan e un colore più chiaro al Concerto. Si nota anche uno scavo interessante nella partitura, che lascia emergere particolari di scrittura non sempre udibili e precursori di sonorità tardo-ottocentesche. Ma si tratta di accenni minimi, manciate di note appena. Zimmermann da parte sua sfoggia una tecnica brillante e un suono raffinato, sempre melodico. Curiosità insolita, anziché limitarsi alla parte solistica, si unisce ai violini primi, suonando anche lui, alla maniera dei concerti solistici vivaldiani. La cadenza è un notevole ricorrersi dei temi principali sovrapposti e contrappuntati.

Tanto placido il Larghetto in sol maggiore che segue, delicato ma senza lacrimevoli languori romantici, quanto interpretato con inaspettato brio il Rondò conclusivo, rustico, pieno di energia, in aperto contrasto con il tono generale degli altri due movimenti: lettura che mal si amalgama con quanto fin qui ascoltato, ma che si adatta alla spettacolare cadenza che Zimmermann tiene come asso nella manica, piena di doppie corde e dalla sonorità a tratti paganiniana.

In risposta ai lunghi e meritatissimi applausi, ecco come encore il terzo movimento della Sonata per violino solo Sz 117 di Béla Bartók, del 1944, intitolato Melodia .

Seconda parte del concerto dedicata a Pëtr Il'ic Cajkovskij e al suo esordio in campo sinfonico. Con la sua Sinfonia n°1 in sol minore Op.13, del 1866 (riveduta nel 1883), Cajkovskij cerca di avvicinarsi al mondo della musica a programma europea, chiamandola Sogni d'inverno e corredando il primo e il secondo movimento di titoli evocativi: Sogni di un viaggio d'inverno e Terra di nebbie. Che poi l'inverno e la nebbia si vedano o no, rimane soggettivo. Di certo, l'influsso della musica europea era arrivato anche in Russia, dopo che un certo Hector Berlioz aveva scritto una Symphonie fantastique nel 1830 e un certo Franz Liszt dodici Poemi sinfonici tra il 1848 e il 1858: lo stesso Cajkovskij darà il nome di “fantasie sinfoniche” a certi suoi brani strumentali futuri, ispirati a episodi letterari (Romeo e Giulietta, Francesca da Rimini, La tempesta, ecc.). Ma c'è anche molto di russo, checché ne dica il “gruppo dei Cinque”. E, in nuce, in quegli appelli reiterati del primo movimento, c'è il già il “tema del destino” della Quarta Sinfonia.

Meno incisivo, ma pur sempre di alto livello, Conlon guida la OSN con bacchetta sapiente nella giovanile ma già raffinata orchestrazione di Cajkovskij. I complimenti vanno ai violini primi e secondi per il primo movimento, compatti e diafani nel fornire sovente un tappeto armonico impalpabile e tersissimo agli altri strumenti; ai fiati per il secondo movimento, nel fine lavoro di cesello, dove l'oboe di Nicola Patrussi, nell'esporre il suo tema struggente stupendamente russo, che sa di racconto attorno al fuoco mentre fuori nevica (suggestioni?) viene infiorettato dagli svolazzi del flauto di Giampaolo Pretto nell'acuto e del fagotto di Andrea Cellacchi nel grave, e ancora alla sezione degli ottoni, ai corni in particolare, possenti e compatti nell'intonare lo stesso tema struggente udito poco prima all'oboe e che diventa, nei loro canneggi, quasi un corale, sostenuto da un vibrato intensissimo e sentito degli archi.

Ben eseguito lo Scherzo, che scorre senza intoppi. Giudizio ampiamente positivo per il Finale, accusato a torto di essere la pagina meno riuscita della sinfonia. Conlon vi infonde brio in abbondanza, ispirato nella sua vitalità alle danze russe, o meglio slave, grazie soprattutto a un uso intelligente di lievi accelerazioni che rendono vivace e variegata la condotta ritmica del brano.

Favore del pubblico che risponde con applausi convinti.

Christian Speranza

21/10/2019

La foto del servizio è di PiuLuce.