RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Mahler al “Massimo”?

Un programma tutto mahleriano per il concerto del Teatro Massimo di Palermo giovedì 6 ottobre 2016 eseguito dall'Orchestra del Teatro stesso e diretto da Gabriele Ferro, con la partecipazione del baritono David Stout. Un programma il cui punto di forza è stato la coerenza. Si è trattato infatti di un focus sulla produzione giovanile di Mahler negli anni 1884-1888 che ha compreso Blumine, l'originale secondo movimento della Prima Sinfonia (quando ancora constava di cinque movimenti), poi espunto nel 1896 durante una delle numerose revisioni (che terminarono solo nel 1906) e diventato brano orchestrale a se stante, e il ciclo di Lieder noti come Lieder eines fahrenden Gesellen (i canti di “uno in cammino”, come traduce Quirino Principe) su testo di Mahler stesso. Per finire, ha concluso la serata proprio la Prima Sinfonia, diretta discendente dei Gesellenlieder.

E partiamo proprio dai Lieder. Fu l'amore a ispirare a Mahler le quattro liriche che compongono il ciclo. Innamoratosi della cantante Johanna Richter mentre si trovava a Kassel nel 1884, fece in modo di trovarsi solo con lei la notte di Capodanno: ma il 1885 si aprì con un rifiuto. Lo spunto autobiografico portò il ventiquattrenne a comporre sia i versi, sia la musica, inizialmente per pianoforte: orchestrati nel 1892-93, vennero eseguiti nel 1896 (lasciando anonimo l'autore dei testi) e pubblicati postumi nel 1912. Il modello dei cicli liederistici schubertiani è vicino, soprattutto il Winterreise, che richiama il concetto del viaggio; e al declinare della stagione romantica, questo tratto passatista del giovane Mahler – che sarà invece fra i rinnovatori del linguaggio musicale primo-novecentesco – fa quasi tenerezza: lo sfogo di un animo artistico e sensibile che cerca nelle proprie parole e nelle proprie note un modo di incarnare la delusione d'amore.

Ben più importante risulta ciò che, dal punto di vista musicale, questi Lieder rappresentarono. Di fatto, furono il banco di prova per la Prima , composta di lì a poco: il secondo Lied del ciclo fornisce il tema principale del primo movimento della Sinfonia, e il quarto (Lied) qualche accenno melodico del terzo (movimento). Occorsero quattro anni di lavoro per terminare il Poema sinfonico in due parti e cinque movimenti; ma quando lo revisionò, dopo il bruciante insuccesso della prima esecuzione (Budapest, 1889), il suo amore per Johanna era ormai tramontato da tempo: e quell'inserto sentimentale, che si richiama a una scena d'amore in un campo fiorito (Blumine, da Blumen, fiore) apparve ai suoi occhi fuori luogo nel contesto degli altri quattro movimenti. Nel frattempo il Poema sinfonico era diventato Sinfonia in re maggiore “Titano”, con riferimento all'omonimo romanzo di Jean Paul, al secolo Johann Paul Friedrich Richter (casualmente lo stesso cognome di Johanna: ma guarda…). Per tutte le sue prime composizioni, fino alla Quarta Sinfonia, Mahler tentò di redigere un programma-guida, e la Prima avrebbe dovuto tratteggiare le vicende del protagonista del libro di Jean Paul in musica. La scelta definitiva fu però quella di abolire qualsiasi programma e qualsiasi titolo: «Chiamiamole entrambe Sinfonie e nient'altro» scrisse nel 1893 a Natalie Bauer-Lechner, mentre la Seconda era già in cantiere. Filologicamente è dunque sbagliato continuare a soprannominare la Prima di Mahler “Titano”, ma tant'è: a tutt'oggi si continua a farlo.

Sotto la guida di Gabriele Ferro, l'esecuzione ha disatteso le aspettative più rosee sotto diversi aspetti, e tracciarne un bilancio significa evidenziare sia i lati positivi – pochi – sia quelli negativi – …

In Blumine è stato notato un attacco poco pulito del corno, a inizio movimento; migliore la prestazione degli archi, con un buon vibrato, rispetto ai fiati, per concludere con un finale opportunamente sfumato. Nei Lieder sono state rilevate diverse diacronie fra strumenti e fra voce e strumenti (il passaggio in ottava tromba-baritono nel secondo Lied, per esempio), diacronie, ovvero sfasamenti nell'attacco dei suoni (attacco che dovrebbe essere perfettamente sincrono), insistite e ripetute. La voce di David Stout si è caratterizzata per un timbro molto chiaro, quasi tenorile (da tenore scuro, si potrebbe dire), e l'interpretazione ha cercato di far prevalere l'aspetto patetico, rassegnato e lamentoso del viaggiatore che confessa la sua pena d'amore: interpretazione che, seppur in linea con i testi mahleriani, non si è imposta qualitativamente (il non mai abbastanza rimpianto Fischer-Dieskau resta un modello difficilmente avvicinabile).

È però con l'esecuzione della Prima Sinfonia, per dirigere la quale Ferro rinuncia alla partitura, che emergono le pecche peggiori, anche dal punto di vista interpretativo. Tralasciando le nuove diacronie, a partire dall'intervento dei fiati (straordinariamente simile, tra l'altro, al tema di corale del Preludio, Corale e Fuga di Franck) sul continuum sovracuto degli archi nell'introduzione, il tempo scelto si è distinto per l'insolita lentezza un po' trascinata, ancora ammissibile, ma di certo inconsueta, che ha dato l'idea di una passeggiata per i prati in totale relax. Interessante, e in questo caso non privo d'interesse, l'uso accentuato del portamento e delle legature nello sviluppo (nei passaggi degli archi), che ha contribuito ad aumentare il senso di mistero e di timore che insorge nell'immobilità orchestrale. Infine, una chiusura di movimento migliore senza dubbio dell'apertura, più sciolta e scorrevole. Assenza quasi totale di legature nel secondo movimento, un Ländler di paese che non conserva l'opportuna rustichezza e tende a scivolare con eccessiva disinvoltura su alcune sfumature interpretative che non paiono giustificabili (le legature di frase per esempio come se in questa parentesi non ci fosse la punteggiatura anche se sarebbe il caso). Sicuramente di fattura migliore il terzo movimento, il più famoso della sinfonia, basato sul tema di Fra' Martino campanaro (in tedesco Bruder Jakob, Frate Giacobbe), ma convertito in tonalità minore e rallentato fino a farne una marcia di stampo funebre e grottesco al tempo stesso, alternata, con sorprendente originalità (originalità che all'epoca della prima esecuzione fruttò i fischi più feroci!), ad inserti di musica di altra natura, come il passaggio di musica klezmer, lo stile popolare ebraico, che in questa esecuzione è stato reso con grazia appassionata. La furia con cui irrompe il quarto movimento è stata smorzata dal suono troppo debole degli archi a confronto degli interventi di fiati e percussioni. Ora, se pure i fiati sono quelli che conducono il discorso melodico in questa prima parte di finale, gli archi sono il fuoco sotteso che permette all'orchestra di somigliare a un magma incandescente: niente archi, niente magma. Un vero peccato, proprio in uno dei momenti meglio riusciti dell'esecuzione, la quale, nel prosieguo del movimento, ha reso meglio i passaggi lenti e dolci rispetto a quelli più rapinosi e violenti, che son parsi disomogenei e poco coordinati. Si giunge così alla perorazione finale dei corni, che, anziché sapere di fanfara, cedono ad una nobiltà “educata” ma poco trionfale. Compostezza, dunque, per un finale che ha visto, su scelta del direttore, i cornisti, in piedi com'è talvolta uso, rinforzati da una tromba e un trombone, intervenuti solo nelle battute quasi conclusive.

Il pubblico ha manifestato il suo gradimento con applausi prolungati. Di certo la riuscita del concerto non si può negare; ma la somma di tanti dettagli (forse trascurabili, tuttavia da non trascurare e qui trascurati) può, come in questo caso, inficiare l'impeccabilità della prestazione. Ed è il dettaglio a fare la differenza.

Christian Speranza

17/10/2016

Le foto del servizio sono di Rosellina Garbo e Franco Lannino.