RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

La morte dell'arte

I giganti della montagna, ultimo lavoro teatrale di Luigi Pirandello, rimasto incompiuto per la morte sopraggiunta il 10 dicembre del 1936, riassume in certo senso tutto il percorso poetico del grande agrigentino, in un fil rouge che va dai Dialoghi tra il Gran Me e il Piccolo Me, del 1895, a Colloqui coi personaggi, del 1915, passando per Sei personaggi in cerca d'autore del 1921 e Questa sera si recita a soggetto del 1930: un percorso nel quale alla demistificazione programmatica del linguaggio comune, trappola di incomunicabilità per ogni uomo, si affianca una critica corrosiva dell'aspetto sociale dell'uomo, critica che affonda le sue radici non nel tessuto storico, ma nella stessa essenza umana. L'Uomo è maschera, dietro la quale molto spesso non c'è un volto, e la storia si costruisce proprio a partire dall'agitarsi di queste maschere, in un gioco di finzioni che solo l'arte può destrutturare; l'arte, unica forma di conoscenza privilegiata che può recuperare la realtà vera, o meglio ancora la vita nuda.

Nutritosi sin dalla permanenza in Germania della fenomenologia husserliana, Pirandello allaccia strettamente la sua ricerca teatrale a quelle che sarebbero state le voci più inquiete e per certi versi ambigue della filosofia della prima metà del Novecento, anticipando in forma artistica e drammaturgica le ricerche linguistiche di Heidegger e la filosofia di Wittgenstein, unite, pur se su versanti opposti, da una comune messa in discussione della conoscenza logico-scientifica considerata dal Positivismo in poi l'unica in grado di comprendere e descrivere la realtà umana e i fenomeni che la circondano. Se Heidegger muove dall'analitica esistenziale per demistificare i moduli della convivenza borghese e Wittgenstein postula l'assoluta impossibilità di comunicazione a partire dalle cristallizzazioni logico-filosofiche del linguaggio, il punto di approdo per entrambi è esattamente quello teorizzato da Pirandello nella sua ultima opera: solo l'arte può recuperare i fenomeni nei quali l'uomo è immerso al loro stato nascente, l'arte con la sua capacità di riproporre il mondo intatto, con tutte le sue ambiguità, le sue polivalenze, ma anche con quei fantasmi della mente che la logica tenta di negare ma che sono l'ultimo retaggio della funzione mitopoietica del linguaggio originario.

Nei Giganti si attua e si teorizza il totale scollamento dell'artista dalla società mercantilistico-industriale, sia esso creatore (Cotrone) o ri-creatore (La Contessa): la villa nella quale gli Scalognati si sono rifugiati è il mondo dell'arte, quel mondo dove realtà e finzione, vita e morte, sonno e veglia si uniscono in un tutto inestricabile e al di fuori del quale all'artista altro non resta che la sorte dell'Albatro di Baudelaire. E non è un caso che il più complesso e inestricabile dei romanzi di Alfred Döblin, uno dei massimi esponenti dell'Espressionismo tedesco, movimento al quale molto spesso Pirandello è stato accostato, rechi il titolo di Giganten (pubblicato nel 1924 e poi nella sua edizione definitiva nel 1932), e che la vicenda in esso narrata, onirica, apocalittica e inestricabile, narri l'esito devastante per l'umanità della prevalenza della scienza e delle sue conquiste sul mondo della natura. Un esito devastante che Pirandello, nel racconto fatto al figlio Stefano della scaletta del terzo atto mai scritto, sintetizzava nella morte della Contessa dilaniata dai servi dei Giganti, bestiali proprio come i loro padroni: incapaci di apprezzare l'arte, perché dediti solo alle conquiste materiali nelle quali riassumono tutta la loro vita, delusi nelle loro aspettative di uno spettacolo di balletti, barzellette e crassa comicità, fanno a pezzi la donna, dilaniandola come secoli prima le Baccanti, espressione della naturalità della vita, avevano dilaniato Penteo, reo di aver osteggiato il culto di Dioniso, terribile esito rovesciato dell'eterna lotta tra l'apollineo e il dionisiaco.

La regia di Gabriele Lavia, che ha firmato questa nuova messa in scena de I giganti della montagna, prodotta dalla Fondazione Teatro della Toscana, in scena al Bellini di Catania dall'8 al 12 febbraio per la stagione 2019-2020 del Teatro Stabile di Catania, ha certo tenuto presente tutti gli spunti estetico-filosofici su esposti, puntando su una rappresentazione visionaria e onirica di grande impatto visivo ed emozionale. Le imponenti dimensioni delle scene di Alessandro Camera hanno reso necessario che lo spettacolo venisse ospitato dal nostro Teatro lirico, la cui ampiezza del palcoscenico ha permesso un'estrema fluidità di movimento alla compagnia, generando al tempo stesso un'illusione di scatole cinesi creata dalla scenografia rappresentante non la villa “La Scalogna” prescritta da Pirandello, ma i palchi di un teatro ormai cadente, con un'enorme spaccatura nel mezzo, simbolo trasparente della morte dell'arte ad opera della società mercantile. Le luci di Michelangelo Vitullo si sono rivelate componenti essenziali nella resa emozionale dei personaggi, marcando a un tempo i vari passaggi del copione, e agevolando l'aspetto magico-istrionico del Cotrone impersonato dallo stesso Lavia; in particolare, il momento conclusivo del dramma, segnato dalla cavalcata dei Giganti (qui resa da un rombo ossessivo come di una locomotiva di marinettiana memoria), ha perfettamente descritto ed evocato sia il punto di rottura generato dall'irrompere della materia nel tessuto spirituale dell'arte, sia lo sgomento dei protagonisti dinanzi all'alieno che li attende. Le musiche di scena, composte da Antonio Di Pofi, si sono piegate anch'esse alla magmaticità multiforme del testo, spaziando da secchi accompagnamenti sonori all'intensa liricità che seguiva gli interventi della Contessa. I costumi di Andrea Viotti, coloratissimi e occhieggianti al cinema felliniano, come anche le maschere di Elena Bianchini, hanno accresciuto il clima surreale della messa in scena, stagliandosi variopinti sulle meste rovine dell'immenso teatro che dominava immutabile la rappresentazione.

Affiatatissima la compagnia, dominata da una vivacità di movimenti che rendeva rutilanti e volutamente caotiche le scene d'insieme dominate dal tipico sovrapporsi di battute pirandelliano: se Matilde Piana, chiamata a sostituire nel ruolo della Sgricia la compianta Nellina Laganà (cui lo spettacolo è stato dedicato) ha conferito al suo personaggio (ispirato alla novella Lo storno e l'angelo Centuno) una malinconia sognante da vecchia contadina siciliana, ben contrassegnato dalle sue frequenti incursioni nella dizione sporca (talvolta usata dallo stesso Lavia) e in inserti dialettali (non previsti nel copione) atti a collocare Villa Scalogna tra le campagne della nostra isola, Federica Di Martino ha incarnato una Contessa sanguigna e sensuale, rendendo palpabile l'intersecarsi ossessivo tra vita e finzione scenica, disegnando una figura di attrice soggiogata da una lucida follia, prepotentemente donna e dominatrice della compagnia di attori giunta da Cotrone, che Gabriele Lavia è riuscito a tratteggiare con dimessa e trasparente maestria, delineando un personaggio a tutto tondo, volta a volta istrione, filosofo, poeta, Mago come voleva Pirandello, ma anche Bagatto, come insegna il mazzo dei tarocchi, il cui cappello reca il simbolo dell'infinito, Arcano Maggiore di trasmutazione e cambiamento, carta pericolosamente e significativamente vicina alla numero Zero, il Matto.

Giuliana Cutore

9/2/2020