RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Quarte parallele

Con tutte le dovute differenze di epoca e stile, ho sempre ravvisato un parallelismo nell'evoluzione compositiva delle Sinfonie di Beethoven e di Mahler, almeno fino alla loro Quinta. Due Prime che si legano alla tradizione, ma che già ne prendono le distanze. Due Seconde che superano in ambizione, durata e ampiezza le Prime. Due Terze in cui deflagra tutta la potenza creativa dei loro autori e che non avranno rivali per diversi anni. Due Quarte che in apparenza sembrano tirare i remi in barca, meno appariscenti delle altre tre sorelle. E due Quinte in cui prende avvio per entrambi un nuovo stile compositivo. Ma, se a primo ascolto le Quarte di Beethoven e Mahler possono sembrare delle battute d'arresto, è perché una concezione estensiva della sinfonia fa luogo a una intensiva. La riduzione dei mezzi orchestrali non significa meno inventiva, quanto piuttosto un uso più sapiente degli stessi, un sapere cosa mettere su carta e cosa non mettere, soprattutto, esercitando quello che Kafka avrebbe chiamato «un violento dominio di sé».

Accantonati gli “eroici furori” dell'Op.55, Beethoven, con la Sinfonia n°4 in si bemolle maggiore Op.60, composta rapidamente nell'estate del 1806, si abbandona a un lavoro senza vistosi contrasti e permeato da una serenità di fondo raramente altrove rintracciabile nella sua produzione, non privo però di tensioni interne (soprattutto nell'Adagio d'apertura, di haydniana memoria, e nel secondo movimento, Adagio, venato qua e là di ripiegamenti intimistici e vagamente malinconici), che contribuiscono al suo ineccepibile equilibrio formale.

Alla terza replica del concerto inaugurale della stagione sinfonica 2019/2020 del Teatro alla Scala, domenica 29/09/2019, la lettura di Chailly, alla testa della Filarmonica della Scala, insiste sull'elemento vitalistico dell'Op.60. Dopo l'Adagio introduttivo gonfio di suono, presago di drammi, si passa a un Allegro vivace molto sostenuto, trattato con attenta baldanza, che strizza l'occhio a una possibile chiave di lettura della futura e più dionisiaca Settima. Questo stesso spirito vitalistico innerva anche lo Scherzo, Allegro vivace, come pure il conclusivo Allegro ma non troppo, un moto perpetuo di quartine degli archi, separate da episodi più melodici e da punte di accesa drammaticità (e dove fa capolino un intervento del fagotto di sapore rossiniano). Un moto perpetuo a tratti fin troppo vorticoso, nella versione di Chailly, quasi precipitato, ma trattenuto laddove è più il caso di frenare la corsa, soprattutto a pochi secondi dalla conclusione, dove l'orchestra pare aver esaurito le batterie, per poi riprendersi con un repentino e scherzoso colpo di coda.

Meno convincente la lettura dell'Adagio, che di Ad...agio non ha conservato quasi nulla e viene anzi trattato come un Andante o un Allegretto, ad una velocità che, scontrandosi con la cantabilità dei temi, trasmette una sensazione di ansia, più che di distensione. Da un punto più prettamente direttoriale, i piani sonori di parti primarie e parti secondarie (di accompagnamento) vengono qui talvolta allineati, e ciò evidenzia suoni striduli, soprattutto nell'incontro tra archi e legni, per quelle inevitabili dissonanze che l'armonia porta a scrivere (ma che dovrebbero essere smussate in fase esecutiva).

Di ben altra portata la lettura della Sinfonia n°4 in sol maggiore di Mahler, composta nelle estati del 1899 – 1900, ma che riprende un Lied scritto nel 1892, Das himmlischen Leben (La vita celeste), tratto, come tutte le composizioni per voce di questo primo periodo, dal Knaben Wunderhorn. Ponendo questo Lied a conclusione della Quarta, Mahler si riallaccia alla tradizione del finale di sinfonia cantato, inaugurato da Beethoven con la Nona , ma fa sì che l'ascoltatore lo individui quale nucleo generatore dei tre movimenti che lo precedono, legati tematicamente in modo più o meno esplicito, e li concepisca come un grande preludio strumentale alla rivelazione della voce: la visione del Paradiso con gli occhi di un bambino, con Santa Marta che cucina, una cantina inesauribile e gratuita e gli apostoli che portano a macellare animali. Ma la musica, che alla fine svapora immateriale e si chiude sul mi maggiore di arpa e contrabbassi, pare voglia dirci, oltre il significato delle parole che può farci sorridere, che c'è dell'altro oltre quello che vediamo, e che a immaginare un cielo vagamente pagano non si commette peccato.

È un ascolto estremamente analitico, quello che Chailly dà della Quarta: una lettura che sembra calare in pratica una lezione di direzione e di orchestrazione. La fitta trama di rimandi tematici, specialmente durante lo sviluppo del primo movimento e nei meandri del monumentale terzo, è messa in evidenza con lodevole nitore: una partitura squadernata davanti avrebbe avuto lo stesso effetto. Ciò che nella Quarta di Beethoven poteva essere un difetto, qui diventa pregio, data la ricchezza della tavolozza mahleriana, per apprezzare appieno la quale, o si è musicisti, o niente. Attenzione, però: nel Bedächtig d'apertura, sebbene l'espressività non sia quella di un Mengelberg (Addio, del passato…), i rimarchi netti dei fiati possono da un lato far apprezzare di più il tessuto strumentale e rendere più coinvolgente l'ascolto, dall'altra, specialmente nell'ascoltatore meno avvezzo, può disorientare. Sembra chiara la scelta di Chailly di proporre una lettura particolarmente attenta e rivolta agli addetti ai lavori. Attenta, ma non fredda. Al contrario, nel Ruhevoll Chailly plasma un incanto di dolcezza ultraterrena, coronata dal maestoso appello finale, coi corni a piena voce che già anticipano il Lied conclusivo e i timpani a doppio mazzuolo che reiterano l'ostinato ritmico di tutto il movimento.

Il Lied conclusivo, per l'apputo. A interpretarlo è Christiane Karg, ottimo soprano dalla voce calda, avvolgente, dai risvolti vagamente scuri, una voce che si adatta al ruolo affidatole, ma che non riesce a esprimere tutto il suo potenziale a causa del continuo prevaricare del volume orchestrale sul suo bel timbro ambrato. A parte ciò, plauso per Chailly, che non si fa contagiare dalla brutta abitudine di interpretare il “refrain dei sonagli” come un improvviso attacco di isteria strumentale (Bernstein).

Christian Speranza

30/9/2019

La foto del servizio è di Brescia e Amisano - Teatro alla Scala.