RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Nemiche salariate

Dopo il mito del buon selvaggio, utopia illuministica che scorgeva nell'uomo non ancora guastato dalla civiltà un modello di virtù, di disinteressato amore per il prossimo, il marxismo, molto più realisticamente, escluse concetti come malvagità e bontà dall'analisi socio-economica del consesso umano, e vide a buon diritto nella lotta di classe la chiave di volta dei rapporti umani. A questa descrizione ben aderente al vero, ma quanto mai desolante, tentarono di porre rimedio in parecchi, descrivendo cristianamente, ma con la ferma volontà di mantenere intatti tutti i divari sociali, un bel po' di intellettuali che magnificavano le virtù degli umili, la loro gioia di essere e rimanere tali, e di converso narrando di aristocratici e di industriali fieri di stringere mani sozze di carbone e piene di calli, e che nel contempo elogiavano il duro lavoro manuale e la dignità delle classi inferiori dinanzi a figlioletti ben pasciuti e altrettanto ben vestiti, a loro volta costretti ad abbracciare cenciosi figli di carbonai e fabbri con le lacrimucce d'obbligo. I bambini delle scuole elementari venivano conseguentemente nutriti da questa broda melensa, e costretti a leggere devotamente, con cadenza poco men che giornaliera e col condimento dei discorsi edificanti della maestra, quel capolavoro di giustificazione dell'esistente che è il Cuore di De Amicis. Ma nella realtà? La realtà è un'altra storia: un gigantesco gioco delle parti dove i poveri, servi o operai che siano, lungi dall'essere umili e paghi del loro stato, odiano visceralmente, talvolta senza nemmeno esserne coscienti, i loro padroni, e dove i padroni conoscono benissimo il divario (per loro fortuna) incolmabile tra le classi, ma fingono una volontà di abolire le distanze atta soltanto a meglio ribadirle, e soprattutto a lasciare il mondo esattamente com'è. Meglio, molto meglio, dopo Rousseau ma prima di Marx, Hegel descrisse questo gioco, trovando nella dialettica servo-padrone l'unica chiave descrittiva della società, dall'alba fino alla fine dei tempi. Il servo, in poche parole, odia il padrone ma nello stesso tempo ne ha bisogno per mantenere la propria identità, e lo stesso dicasi per il padrone, con l'aggravante che, se il servo riuscisse mai a diventare padrone, svilupperebbe immediatamente una psicologia da padrone, riproponendo la dialettica originaria.

A questo coacervo di ideologia e ipocrisia non si poteva non pensare alla prima di Le serve di Jean Genet, andata in scena allo Stabile di Catania il 20 dicembre, con repliche, tolta la pausa natalizia, sino al 30. Il testo, del 1948, proposto nella traduzione di Gioia Costa, pone in maniera ostensiva sotto gli occhi dello spettatore il dipanarsi della dialettica servo-padrone: due cameriere-sorelle, Claire e Solange, odiano ferocemente la Signora, padrona in apparenza affettuosa e democratica, ma convinta com'è logico che le serve stiano bene in cucina, vestite di abiti smessi e con un mezzanino per camera da letto. Ma le serve, in assenza della Signora, giocano un gioco perverso, che per il pubblico si traduce di necessità in un teatro nel teatro, imitandola nei gesti e nel pensiero, indossandone i vestiti, riproponendo fra di loro la dialettica suddetta, con Claire padrona e Solange serva. Una finzione che ad un certo punto non basterà più come tale, e che richiederà uno sfogo reale al loro odio, e che le condurrà ad un ulteriore gioco al massacro dal quale la Signora uscirà unica vincitrice.

La regia di Giovanni Anfuso, coadiuvata dai costumi di Lucia Mariani, dalle musiche di Paolo Daniele e dalle belle scene di Alessandro Chiti, che sottolineavano, tra verdi acquatici e luci crude, il taglio onirico-grottesco della vicenda, tendeva ad un'ambiguità di fondo tra naturalismo e teatro dell'assurdo, che inquadrava abbastanza bene il continuo oscillare tra teatro nel teatro (la recita delle serve tra loro ma anche, più sottilmente, tra la Signora e le serve) e i momenti nei quali l'azione reale sbalzava in primo piano. Un'ambiguità resa possibile soprattutto dalla notevole classe attoriale delle protagoniste, che hanno saputo oscillare senza forzature tra i due registri principali, usando in maniera appropriata sia la gestualità che la voce.

Vanessa Gravina, la Signora, ha tratteggiato una padrona svampita al punto giusto, ma nel contempo tutta compresa nel suo ruolo, sottolineando nelle cadenza della voce il suo prendere in giro Claire e Solange fingendo di apprezzare moltissimo la fasulla devozione della quale le cameriere la circondano. Bravissima anche Manuela Mandracchia nel ruolo di Claire, che è riuscita a trascorre con estrema disinvoltura dalla finzione di essere la Signora all'esatto opposto di sorella e complice di Solange, interpretata da Anna Buonaiuto, alla quale va riconosciuto il merito di aver tratteggiato contemporaneamente tre ruoli contigui ma diversi: quello di Solange cameriera della Signora, quello della finta cameriera di una finta Signora, e infine quello della vera Solnge, compagna e sorella di Claire. Il tutto con quasi impercettibili mutamenti nell'uso della voce, poco più nel gesto, mutamenti che però rendevano assolutamente chiaro il passaggio da un ruolo all'altro. Una scelta attoriale di gran classe, sostenuta da una mimica eccellente e da una perfetta dizione, che le hanno consentito di affrontare senza sbavature una parte oltremodo complessa, permettendole quell'equilibrio sottile e vigile tra grottesco e realistico ricercato dalla regia.

Giuliana Cutore

22/12/2016