RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Antico e moderno

All'epoca in cui veniva scritto il grande repertorio, era facile incontrare figure da one man show: un Mozart, per esempio, passava agevolmente dal podio del direttore allo sgabello del clavicembalo o del fortepiano; un tipo come Liszt, poi, dominava il pubblico con il suo magnetismo, oltre che con la sua musica. Al giorno d'oggi queste figure sono rare. Una delle poche è András Schiff, che, domenica 12 aprile 2015 all'Auditorium Agnelli di Torino, nell'ambito dei Concerti del Lingotto, si è esibito come solista al pianoforte e direttore della Chamber Orchestra of Europe, presentando un programma che, dal suo amato e prediletto Bach, ha spaziato fino all'ultimo Bartók, passando per Mozart.

La serata si è aperta con il Concerto per tastiera e archi in mi maggiore BWV 1053, brano derivato da un precedente Concerto per violino od oboe, ripreso da Bach anche per un paio di Cantate e infine adattato per tastiera e archi. “Tastiera” è forse il termine più generico ma anche più corretto, dal momento che all'epoca di Bach il pianoforte era ancora di là da venire e il titolo originale di Klavierkonzert lascia spazio all'immaginazione di quale tastiera si sarebbe potuta usare, se quella di un clavicembalo, di un clavicordo o di un fortepiano. L'utilizzo moderno del pianoforte, come si sa, non è filologicamente corretto, pure, per rendere la straordinaria complessità di certi intrecci polifonici bachiani (e penso qui a certe Fughe del Clavicembalo ben temperato), esso si dimostra enormemente più versatile rispetto alle tastiere in voga in quel tempo, grazie alla possibilità di evidenziare, marcandola, l'entrata delle diverse voci nel contrappunto. In un brano come il Concerto BWV 1053, invece, dove prevale l'interazione tra il solista e gli altri strumenti, in una concezione più sinfonica che concertistica, la prevalenza del solista sull'orchestra non è richiesta; e Schiff adatta la sonorità del pianoforte mitigandola, quasi con-fondendola, con quella degli archi, che, dal canto loro, dimostrano un'apprezzabile compattezza di suono e una brillantezza che manterranno per il resto della serata. Tuttavia, sono frequenti i momenti in cui Schiff, nella doppia veste di solista e direttore, viene completamente coperto, nascosto, sì, a commentare il discorso degli archi (che in Bach, anche quando si tratta, come in questo caso, di un Concerto destinato ad un'occasione mondana, come i caffè-concerto al Caffè Zimmermann, è sempre serrato e procede come lo svolgersi senza indugi in un percorso a spirali sempre più dense) con ornamentazioni ed arpeggi raffinati, ma pressoché inudibili. Su questo aspetto migliora nel secondo movimento, dove il discorso si fa minimalista, con gli archi a punteggiare le meditazioni quasi violinistiche della tastiera; e va imputata solamente una fretta, una corrività che snatura in parte l'intimità del brano. Similmente a quanto accade nel primo movimento, il terzo riprende la corsa sotterranea del pianoforte, sempre poco o punto rilevato rispetto all'orchestra, e nel quale si inserisce una vena di nervosismo già molto moderno, ma forse estraneo allo spirito bachiano, che spesso è trascendenza anche nella vivacità. Dall'antico al moderno, si passa, dopo Bach, al Terzo Concerto per (questa volta) pianoforte e orchestra di Bartók, una delle ultime composizioni del maestro ungherese, che lasciò le ultime 17 battute incomplete nell'orchestrazione (conclusa dall'allievo e amico Tibor Serly). Qui, l'atteggiamento espressivo di Schiff cambia totalmente: siamo in presenza di un vero e proprio solista che si impone sull'orchestra; sempre però dolcemente, perché il Terzo di Bartók è brano di fattura leggera, tecnicamente meno agguerrito dei due precedenti (la dedica è alla seconda moglie Ditta Pásztory, pianista), che in buona parte elimina dalla sua scrittura quelle dissonanze e quelle brutalità tipiche del Bartók più famoso. All'orchestra si aggiungono fiati e percussioni, ma, stranamente, il numero degli archi rimane invariato rispetto all'esecuzione bachiana, cosa filologicamente non molto corretta. L'espressività del primo movimento è a tratti scherzosa, col pianoforte che duetta simpaticamente – ma sempre in modo impeccabile e governando lui stesso il gioco delle parti – con l'orchestra. Una serenità composta è invece la cifra distintiva del secondo movimento, che di tanto di tanto si vela di malinconia. L'Adagio religioso del Terzo Concerto è certamente una delle pagine migliori di Bartók (di quello riflessivo, per lo meno, che personalmente preferisco rispetto a quello più irruente e percussivo), e con un'interpretazione del genere si può star certi che il suo spirito è stato restituito in toto al pubblico. Grazia saltellante e conclusione all'insegna della brillantezza per il terzo movimento, dove il rilievo dato al pianoforte è stato ancora maggiore e la scioltezza del solista ha permesso di superare quegli ostacoli tecnici che, a volte, rendono questo movimento burattinesco e meccanico.

In veste di direttore, Schiff presenta la Sinfonia n°41 in do maggiore KV 551 di Mozart, più conosciuta come “Jupiter”. Ultimo saggio dell'arte sinfonica mozartiana (non il quarantunesimo, per la verità, bensì circa il sessantesimo, tenendo conto delle Sinfonie ritrovate successivamente alla prima numerazione), risalente all'agosto del 1788, condivide, con la KV 543 e la KV 550, la nascita e la destinazione ignota: furono scritte forse per un'«accademia», o forse per un bisogno personale di comporre. Schiff, che dirige senza bacchetta, né partitura, presenta una lettura lenta e molto misurata della Sinfonia: il primo movimento è Allegro, ma non molto vivace, così come il secondo movimento, l'Andante cantabile in fa maggiore. Di poco più personale è il Menuetto, grazie anche ad una musica dall'andamento solenne, che permette al direttore di prendersi più libertà. Si tratta, nel complesso, di una direzione contraria alla freschezza e alla vitalità della pagina, e si adatterebbe meglio al Settecento compassato di altri autori. I piani sonori sono ben delineati – e la scrittura mozartiana, in questo caso, è piuttosto gentile nel concedere molto spesso al direttore di individuare con facilità la linea melodica da far risaltare – e, nei suoi tratti generali, la lettura di Schiff di incanala nella tradizione assodata; il rischio è quello di far apparire Mozart come un parruccone antiquato, mentre la genialità della sua musica è cosa che sorprende ogni volta, specie in alcune pagine come il Finale della "Jupiter”, sintesi del principio della forma-sonata e del fugato, sulla base di un cantus firmus di quattro note di stampo gregoriano (un tema che compare più volte nella produzione di Mozart). Non sono mancati, come gradito ringraziamento per i generosi applausi, ben due fuori programma: il primo, al termine della prima parte del concerto, ha visto Schiff esibirisi al pianoforte nel Minuetto I/II e nella Giga dalla Partita n°1 in si bemolle maggiore BWV 825 di Bach; il secondo, quale direttore della Chamber Orchestra of Europe, al termine della Sinfonia, nel Balletto n° 2 da Rosamunde di Schubert.

Christian Speranza

16/5/2015

La foto del servizio è di Pasquale Juzzolino.