RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

New York

Visita al MET 1

Non c'è neve o freddo capace di fermare l'attività frenetica della città che non dorme mai. Teatri, concerti, opere, balletti, film e chi più ne ha più ne metta, solo a guardare i programmi su Internet viene il mal di testa. E non si tratta solo di quantità, anche se non tutto è allo stesso livello quando di qualità si tratta. Prendiamo allora la Metropolitan Opera House e vediamo: in una settimana si alternavano ben cinque titoli (due nuove produzioni – una alla prima assoluta – e tre riprese). Ne ho visti quattro (il quinto era una Butterfly, un'opera che ho visto perfino troppo e che purtroppo è sempre meno facile vedere con una protagonista all'altezza del ruolo). Siccome un articolo sarebbe troppo lungo per tutto, in questo parlerò dei due spettacoli che corrispondono al repertorio più tradizionale e amato dal pubblico.

1 Febbraio: Ultima replica in questa stagione de L'Elisir d'amore, per la regia di Bartlett Sher, di solo qualche anno fa ma assolutamente tradizionale e senz'altre sorprese che quelle derivate della personalità –o meno – degli interpreti. Da rilevare solo una lunga pausa –a mio avviso inutile e musicalmente sbagliata – prima dell'ingresso di Dulcamara. Era anche l'ultima volta che Anna Netrebko cantava Adina, ed è naturale perchè la voce presenta adesso una qualità di timbro più scura e soprattutto un volume che – sebbene adoperati in modo irreprensibile dal punto di vista tecnico e stilistico – non c'entrano troppo con la parte e mettono a repentaglio il rapporto con le altri voci, in particolare nei duetti con Nemorino, un Ramón Vargas non del tutto ricuperato dalla malattia che solo per la sua padronanza del ruolo e del canto se ne usciva comunque a testa alta – un esempio per altri colleghi osannati che non ce l'hanno fatto dopo qualche anno in carriera. Nicola Alaimo ci offriva un buon Belcore, benché sia stato il più convenzionale su tutti gli aspetti dei quattro principali. Indubbiamente come personalità magnetica e voce rigogliosa (più vellutata nel grave ancora che altre volte) l'interprete più affascinante era Erwin Schrott nei panni di Dulcamara, un ruolo che ovviamente fa per lui – niente a che vedere con l'interpretazione che ne faceva qualche tempo fa a Valencia e Madrid ma sempre ottima e curiosamente meno ‘eccessiva'. Il coro non si mostrava troppo interessato e l'orchestra suonava bene diretta con sicurezza, anche se non con particolare estro, da Maurizio Benini, un direttore comunque affidabile. Il successo è stato travolgente.

5 Febbraio: Con parecchio meno pubblico e un po' meno di entusiasmo (ma alla fine si sono scatenati applausi scroscianti) era la volta del nuovo Pipistrello tradotto – come si usa qui da qualche tempo – in inglese (per le liriche, da Jeremy Sams, incaricato anche della messinscena; per i dialoghi, da Douglas Carter Beane, che praticamente ha fatto un lavoro nuovo). Se le scene e i costumi ci portavano alla Vienna di Klimmt, il testo sembrava più atto a un musical con delle battute un po' vecchiotte e scontate, e quelle sui francesi risultavano non sempre politicamente corrette – sorprendente per un paese che cura tanto questo versante – ma il pubblico le ascoltava compiaciuto. La compagnia di canto era piuttosto adeguata ma per Broadway (è vero che il famoso corso passa proprio davanti il Met). Eccezioni da farsi: l'eccellente Christopher Maltman come Eisenstein, che non sembrava troppo ispirato o convinto, e la notevole voce del tenore Michael Fabiano in Alfred il tenore. Per il resto, la voce piccola e non particolarmente bella della soubrette Jane Archibald nei panni di Adele; in quelle di Rosalinde una Susanna Phillips, sicuramente voce operistica ma di acuto problematico, interpretazione un po' sopra le righe e notevole volume, un Paulo Szot, brillantissimo Falke (quello che si ha già esibito con successo nei musical e in qualche opera al Met). Per quanto riguarda il principe Orlovsky, la scelta, come si è fatto anche altrove, ricadeva su un controtenore: personalmente la ritengo decisione sbagliata sempre ma soprattutto se il cantante ha un colore, soprattutto in acuto, poco piacevole come quello di Anthony Roth Costanzo. Se alcuni dei migliori momenti vocali si dovevano al Frank di Patrick Carfizzi o gli applausi più convinti – durante la recita – venivano destinati al carceriere Frosch, il ruolo parlato con cui faceva il suo debutto al Met il comico Danny Burstein, la critica si può fermare qui, non senza dire prima che il maestro Adam Fischer lasciava il posto, per malattia, a Paul Nadler, che si limitava a leggere con scarsa ispirazione la partitura. Bene il coro ma non per il ricordo, come del resto tutto lo spettacolo.

Jorge Binaghi

10/2/2014

 
Le foto del servizio sono di Ken Howard.