RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Una Tragica fiorentina

(ma Zemlinsky non c'entra...)

Daniele Gatti

… O almeno, non c'entra più, all'epoca della composizione della Sesta Sinfonia di Mahler. Zemlinsky, intendo. Il futuro compositore di Eine florentinische Tragödie, opera in atto unico che vedrà la luce nel 1916, aveva già da tempo abbandonato l'idea di sposare Alma Schindler, dopo averla quasi conquistata all'inizio del Novecento. Ma niente da fare: quando conobbe Gustav «ossigeno puro» Mahler, Alma congedò sbrigativamente quello che fu il suo insegnante di musica e composizione e, nel 1902, sposò quell'uomo più grande di lei di circa vent'anni, intrecciando la ben nota e travagliata vicenda sentimentale che, nella sua disgregazione, portò a edifici sinfonici come la Nona, monumento di abbandono del mondo e testamento supremo del credo artistico mahleriano.

Ma, senza spingersi fino a quell'estremo limite, fino al deterioramento del loro rapporto, nel momento in cui le cose stavano andando tutte per il verso giusto – il lavoro come direttore artistico alla Hofoper di Vienna a gonfie vele (sempre osteggiato dai detrattori, ma quelli ci sono sempre stati, in ogni epoca), un matrimonio ben avviato e due bambine ad allietare la coppia – nelle estati del 1903 e del 1904 Mahler concepisce la più cupa delle sue creature sinfoniche: la Sesta. E, in un impeto di creatività, stende anche quelle che saranno le due Nachtmusik della Settima. Eseguita al pianoforte per Alma, pare che ella abbia commentato: «Dio mio, tu chiami la morte». Ma è prerogativa dei grandi geni vivere in un mondo interiore che talvolta non corrisponde a quello esteriore, per felice che sia. Non passa molto tempo, infatti, che la primogenita Maria Anna muore di difterite nel 1907. Se si aggiunge che fra il 1903 e il 1904 nascono anche i Kindertotenlieder, i Canti dei bambini morti, il quadro assume tinte quasi inquietanti.

Nello Scherzo della Sesta, tutto sghembo per i frequenti cambi di metro, sarebbero grottescamente rappresentate le bambine che giocano sulla spiaggia; nel finale, quello smisurato finale che riesce a tenersi in piedi, pur stracarico di temi e sottotemi e «sovrastrumentato», secondo Richard Strauss, grazie a una perfetta organizzazione della materia sonora, i tre colpi che abbattono l'eroe sinfonico, due dei quali sottolineati dall'impiego del martello in orchestra, sarebbero le tre grandi disgrazie della vita di Mahler stesso: la morte della primogenita, appunto, le dimissioni forzate dall'Hofoper e la malattia cardiaca.

Che avesse previsto tutto questo durante la stesura della Sesta, poi revisionata nel 1906? Improbabile. E tuttavia, a fine stesura, anche Mahler stesso restò perplesso di fronte alla sua creatura: non solo perché aveva appena composto la sinfonia più complessa della sua carriera, dal punto di vista della densità del tessuto strumentale, ma anche perché il discorso complessivo appariva plurimo, aperto a diverse soluzioni: al punto che i due movimenti intermedi, lo Scherzo e l'Andante moderato, vennero invertiti e reinvertiti diverse volte su indicazione dell'autore stesso. Oggi si è più propensi a rispettare il volere dell'ultima esecuzione, con lo Scherzo prima dell'Andante , in modo da offrire un'oasi distensiva prima della mostruosa cavalcata finale che si tuffa in un abisso senza ritorno.

Col suo carico di enigmi che, secondo Mahler stesso, potranno essere risolti da una generazione che abbia accolto e assimilato le sue prime cinque sinfonie, la Sesta approda al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino (o meglio riapproda, dopo esservi mancata da soli tre anni) sabato 25 gennaio 2020 sotto la bacchetta di Daniele Gatti, che dirige l'Orchestra del Teatro stesso in un concerto dedicato alla memoria di Piero Farulli, di cui ricorre quest'anno il centenario della nascita (Firenze, 13/01/1920 – Fiesole, 02/09/2012), violista e didatta, fondatore e direttore della Scuola di Musica di Fiesole e viola del Quartetto Italiano dal 1947 al 1977.

Gatti sfodera un controllo mirabile della complessissima partitura, tenuta sott'occhio dallo scrivente ma non da lui, che dirige a memoria (!). Rispetto a quanto fatto con la Nona, ascoltata poche settimane fa a Torino, in questo caso il direttore milanese rinuncia a un approccio analitico della pagina mahleriana, troppo densa di particolari, evitando di mettere in luce ogni singolo dettaglio della strumentazione e prediligendone una visione più globale ma non per questo meno efficace. Ciascuno dei quattro movimenti è ben caratterizzato, pur trovando, sotto la sua direzione, unità espressiva. Contrariamente ad altre interpretazioni, Gatti non procede a sottolineare il lato febbrile, affannato e nervoso della sinfonia, lato che ne permea quasi ogni pagina, ma opta per una lettura più intimistica, più dimessa, più riflessiva: evita di far “gridare” l'orchestra e ne limita la sonorità anche nei casi in cui più facile sarebbe la presa sul pubblico, a cominciare dai frequentissimi scoppi a piena orchestra e dai due scenografici colpi di martello. Ogni gesto e ogni sonorità è attentamente soppesata, senza lasciarsi andare a inutili ridondanze sonore per le quali Mahler è troppo spesso tacciato di fracassoneria. Certo, l'aggressività di quella marcia inesorabile che apre l'Allegro energico ma non troppo ne fa un po' le spese, rallentata e come “disinnescata” nel suo incedere meno incisivo: ma ne guadagna l'aspetto onirico di quell'intermezzo, nello sviluppo, che chiama in causa i campanacci e le sonorità diafane degli archi divisi e della celesta.

Stando così le cose, lo Scherzo che segue (rispettando quindi l'ultimo ordine indicato da Mahler) assume in proporzione una verve ancor più sarcastica. Talvolta i cambi di dinamica così improvvisi e scattanti non paiono giustificati dalla partitura, ma risultano sicuramente in grado di sottolineare quel procedere scazonte del movimento.

Nell'Andante moderato che segue, la condotta tenuta da Gatti stupisce: dinamica sostenuta, nulla mollezza tardoromantica, anzi, un piglio controcorrente, che non indugia nel languore che le note paiono suggerire, ma procede spedito, quasi a dare quel languore per scontato. Il trasporto arriva verso la fine del movimento, dove un buon trasporto lirico riesce a far decollare il trasporto dell'ascoltatore.

Si giunge così al vastissimo finale, forse il movimento meglio diretto dei quattro. Quella tendenza analitica, quell'approccio divisionista al suono che in un primo momento era stata accantonata, viene qui messa in campo, là dove è possibile, e questo nonostante l'enorme densità di scrittura orchestrale. Si diceva della tendenza di mantenere una generale sobrietà di stile: ed è qui che questa sobrietà emerge maggiormente rispetto agli altri movimenti: cosicché la chiusa della sinfonia, in un cupo la minore che non offre alcun appiglio, alcun cliffhanging alla speranza, risulta perfettamente in linea col resto dell'interpretazione: oscuramente grandiosa, ma senza esagerare.

Meravigliosa l'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, che sfoggia notevoli qualità di suono e di coordinazione. Da sottolineare la perizia della sezione degli ottoni, corni e trombe in particolare, nella Sesta sovente chiamati a impegnative parti scoperte. Bene anche per le sezioni dei legni e degli archi, meno per quella delle percussioni, che si sarebbero volute un po' più incisive, data l'importanza tributatagli dal compositore.

A fine concerto, applausi convinti da una sala che, ahimè, non fa registrare il tutto esaurito. Ma si sa: optima paucis.

Christian Speranza

6/2/2020