RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Il bianco e il nero

Sia o no coincidenza, il Teatro Regio di Torino, dopo aver optato per aprire la stagione con il Requiem di Verdi, ha deciso di proseguire con l'Otello: il che ha quantomeno del curioso, se si pensa che i due titoli sono consecutivi nella cronologia verdiana: 1874 il Requiem, 1887 Otello, senza altri esiti artistici in mezzo, a parte i rifacimenti del Simon Boccanegra (1881) e del Don Carlos (1882).

Da qualche anno è uso al Regio accogliere il pubblico all'ingresso stendendo una passatoia in tema con la prima opera del cartellone: e, se all'epoca del Fliegende holländer (stagione 2012-2013) era una striscia di flutti in tempesta, quest'anno è stata una scacchiera bianca e nera e pezzi degli scacchi ad accompagnare il titolo. L'idea di avvicinare la premeditazione, la strategia paziente e acuta degli scacchi alle macchinazioni di Jago (che nel libretto, guarda caso, è definito “alfiere”) intriga, così come la contrapposizione bianco-nero del colore dei personaggi e alla più profonda contrapposizione vita-morte (un rimando alla partita del Settimo sigillo di Bergman?). La curiosità era tanta, sia per il nuovo allestimento, del regista Walter Sutcliffe, coadiuvato dalle scene di Saverio Santoliquido, dai costumi di Elena Cicorella, dalla coreografia di Hervé Chaussard e dalle luci di Rainer Casper, sia ovviamente per il cast vocale (con riferimento alla prima compagnia, spettacolo di domenica 26 ottobre 2014), di cui diremo più avanti. E come sempre accade quando ci si aspetta troppo, siamo rimasti in parte delusi. Non per quanto riguarda l'aspetto strumentale e vocale, che si è attestato su livelli notevoli, quanto per la regia, che avrebbe dovuto (r)innovare l'aspetto scenico dell'opera e ci è riuscita ma in negativo (il gruppo registico è stato accolto da fischi e buu a scena aperta al termine della prima, cosa che ha indotto il teatro a chiudere il sipario anticipatamente). Ci saremmo aspettati dei rimandi ai già citati scacchi: e invece gli elementi principali della scenografia sono stati una grande muraglia di sacchi da trincea macchiati di sangue alta tre o quattro volte i personaggi, costituita da due pannelli mobili, e un baldacchino utilizzato per il giardino nell'atto II e per il letto di Desdemona nell'atto IV. L'eccessiva economia di mezzi giustificata per allusivi, lambiccati riferimenti (che hanno necessitato di spiegazioni esplicite da parte del regista) si sono accompagnati poi a coreografie non sempre comprensibili, come il correre impazzito del coro da una parte all'altra del palcoscenico, donne in atteggiamenti licenziosi e l'uccisione di due schiavi all'inizio dell'atto I, assieme a particolari non totalmente da rigettare come nell'ultima scena dell'atto IV, in cui Otello, dopo aver pronunciato la sua ultima battuta «un altro bacio», provi ad avvicinarsi al corpo esanime di Desdemona senza riuscire effettivamente a baciarla. Nel libretto, a ben vedere, non v'è traccia del compimento degli ultimi baci (sebbene si intuisca). La libertà del regista è quindi legittimata: non come in altri e più ampi passaggi in cui vengono debitamente ignorate le didascalie del librettista (che a mio parere andrebbero al limite interpretate, non eliminate o cambiate)!

La scelta delle voci ha compensato ampiamente le debolezze della regia. Partiamo con Otello interpretato magistralmente da Gregory Kunde, tenore dal vasto repertorio e in piena carriera, unico al momento ad avere contemporaneamente in repertorio il title role dell'Otello rossiniano e di quello verdiano. La voce si mantiene stentorea e potente attraverso tutta l‘impervio ruolo vocale, accompagnata da una buona sillabazione. Ma potenza che non è sinonimo di pressapochismo: Kunde è a suo agio anche nei momenti più delicati, come nel duetto finale dell'atto I, sapendo dare il giusto risalto alle diverse frasi. Passiamo poi a Jago, interpretato da Ambrogio Maestri, baritono dal timbro rotondo, sicuro, che paga il fio della sua sicurezza in qualche gigioneggiata di troppo nel Credo al II atto. La parte non sembra adatta a lui, che si destreggia comunque in modo mirabile: vi è più forza bruta che calcolo, nel suo Jago: «E quando Jago fa il sottile che insinua, sembra appunto un Falstaff. Manca allo Jago di Maestri la diabolica perfidia» (Enrico Girardi, Corriere della sera di giovedì 16/10/2014). Non è un caso, infatti, se potremo riascoltare Maestri nel ruolo di Falstaff a Firenze, per la ripresa dell'omonimo titolo verdiano a dicembre 2014. La Desdemona di Erika Grimaldi, voce che, assieme a Kunde avevamo già ascoltato per il Requiem di Verdi a ottobre, per tutta la prima parte dell'opera non ci appare dotata di volontà propria, e sembra manovrata da una forza superiore; si riscatta nel III e IV atto, dove anche le sue doti canore emergono al meglio. Toccante in particolare l'interpretazione della “canzone del salce” e dell'Ave Maria. Quanto a Salvatore Cordella, riveste i panni di un Cassio inquadrato nel solco della tradizione, ricoprendo dignitosamente il ruolo. Completano il cast Luca Casalin nei panni di Roderigo, Seung Pil Choi in quelli di Lodovico (tra i ruoli minori dell'opera sicuramente quello meglio interpretato, vocalmente, grazie a una voce di basso calda e suadente e teatralmente grazie ad una recitazione convincente), Emilio Marcucci in quelli di Montano, Lorenzo Battagion in quelli dell'Araldo e Samantha Korbey in quelli di Emilia.

Noseda, dal canto suo, ha probabilmente tratto una lezione importante dai fischi ricevuti alla Scala esattamente un anno fa in occasione della direzione dell'Aida : ad alterare radicalmente i tempi delle opere si corre il rischio di far inferocire il pubblico, molto spesso non incline ad appoggiare accelerazioni immotivate di numerosi passaggi che si vorrebbero gustati con calma, e non trangugiati in un sol boccone (che spesso rimane indigesto, e a lungo) – tutto è questione di interpretazione (parafrasando Nietzsche, non esistono le composizioni musicali in sé, solo loro interpretazioni), ma ci sono dei limiti imposti dal buon senso –: giova perciò rilevare che la direzione ha osservato tempi corretti per tutta la durata dell'opera (svolta con un solo intervallo fra il II e il III atto), seguendo i cantanti, assecondandoli e cercando di non prevaricare su di loro. L'enfasi tipica di Noseda è stata pur sempre presente, e ha pulsato in quasi ogni battuta sospinte innanzi da poderosi colpi di remo, o meglio di bacchetta: è stato possibile sentire, da metà sala circa, gli ansimi provenire dal podio, (difetto già riscontrato altre volte e difficile a mondarsi, almeno in Noseda). Ma a parte ciò, tutti i tasselli della partitura hanno trovato il loro posto nello svolgersi della rappresentazione: un plauso al direttore ma anche all'orchestra del Teatro Regio, al suo Coro, al suo Coro di voci bianche e a quello del Conservatorio “G. Verdi” di Torino, co-diretti da Claudio Fenoglio e Paolo Grosa.

Christian Speranza

18/11/2014

Le foto del servizio sono di Ramella&Giannese.