RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Il giorno e la notte

La grande musica e i grandi interpreti tornano protagonisti all'auditorium Giovanni Agnelli di Torino per il concerto della stagione Lingotto Musica di domenica 22 marzo 2015. Sul podio un Antonio Pappano in gran forma con l'Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che per l'occasione hanno dato nuova e smagliante veste a tre dei maggiori capolavori di sempre. Prima di cominciare, però, poche ma intense parole del maestro Pappano, presentatosi sul palco insieme al direttore artistico del Lingotto Francesca Gentile Camerana, hanno dedicato il concerto alle vittime dell'attacco terroristico del 18 marzo 2015 al Museo del Bardo di Tunisi, rivendicato dell'Isis. Doveroso il minuto di silenzio in piedi.

In apertura, il poema sinfonico L'isola dei morti Op. 29 di Sergej Rachmaninov, composizione del 1909 cronologicamente vicina al Terzo Concerto per pianoforte e orchestra Op. 30 (dello stesso anno), ispirata all'omonimo quadro di Arnold Böcklin, che ne realizzò varie versioni tra il 1880 e il 1894. L'immaginazione del compositore è qui alle prese con la sola orchestra, priva dello strumento al quale troppo spesso viene semplicisticamente ricondotta. E se poi è Pappano a dirigere, le emozioni sono assicurate. Il suono della sua Orchestra è pieno, corposo, denso. I crescendo degli archi sono formidabili, sempre gonfi, tesi come la vela di una nave sospinta dal vento, così come i penetranti interventi dei fiati, che si scavano un posto all'interno dell'orchestra, senza però diventare striduli. Nell'insieme, è un'esecuzione che non perde mai di tensione, ed è questo il merito maggiore (e non certo l'unico): si percepisce la volontà di far come “ondeggiare” la melodia, che «or s'affonda, or s'inciela», di renderla mobile proprio come una massa d'acqua, riconducendosi ad un descrittivismo al quale Rachmaninov stesso non si sottrae, componendo un brano su un quadro che rappresenta una barca che affonda i remi in un mare livido, nero, condotta da un nocchiero bianco come un cadavere: melodie cupe, non sempre orecchiabili, ma tese a riprodurre il moto del mare e insieme il mood dell'osservatore, quando s'immerga nel contesto dell'opera di Böcklin.

Un brano scuro, insomma: scuro come la notte. Ma è noto che Rachmaninov non fosse incline all'ottimismo più sfrenato… A far da contraltare alla “notte” dell'Isola dei morti, in la minore, provvede il “giorno” della Seconda Sinfonia Op. 43 di Sibelius, nella luminosa tonalità di re maggiore, scritta sotto le impressioni suscitate dal soggiorno in Italia del 1901. Anche qui Pappano non delude: un'esecuzione trascinante, in cui si avverte la ricerca di voler ottenere il massimo dell'espressività da ogni passaggio e soprattutto da ogni sezione dell'orchestra. La cura del dettaglio è evidentissima, partendo, ripetiamo, dai crescendo degli archi, sempre compatti e turgidi (e questo, si badi, senza ricorrere ad un numero spropositato di strumentisti), e continuando con le percussioni, mai troppo incisive, calibrate secondo il volume complessivo dell'orchestra, agli ottoni, squillanti ma senza “bucare le orecchie”. Il tono generale è un'evocazione serena della natura, che qui «bramisce», avrebbe detto Mahler, ora sussurrando come vento tra le foglie, ora gridando come una cascata in piena. C'è qualcosa del Beethoven della Pastorale, nell'interpretazione di Pappano, una tendenza a voler rifuggire dalla grandiosità di certi passaggi, che avrebbero fatto la felicità di un Celibidache alle prese con Bruckner, per esempio, in funzione della cesellatura dei timbri. Sarà difficile riascoltare a breve una Seconda di Sibelius così appassionante.

La sintesi dei due opposti spiriti incarnati dall'Isola dei morti e dalla Sinfonia Op. 43 di Sibelius è il terzo brano della serata, presentato in scaletta come secondo: il Primo Concerto per pianoforte e orchestra in fa diesis minore Op. 1 di Rachmaninov. Scritto nel 1891 come saggio finale di composizione da un Sergej diciottenne già padrone di una tecnica pianistica sbalorditiva e di un talento innato per la composizione, poi revisionato nel 1917 con l'intento di snellire la scrittura orchestrale, questo Concerto permette di tornare alle origini della carriera di un genio, mostrando come, in lui, le vocazioni di pianista e di compositore fossero intimamente legate già a partire dalla sua opera d'esordio.

Ad interpretarlo è stato chiamato il trentenne Alexander Romanovsky, fascinoso pianista ucraino che ha letteralmente incantato l'uditorio. La collaborazione con Pappano è quanto mai fruttuosa: il primo movimento, Vivace, attacca in modo rude, fiero, grandioso, brutale, aggressivo, e il primo colpo di timpano, che suggella la breve introduzione orchestrale e spiana la via per la prima, fulminea cadenza del pianista, è sferrato con veemenza, seguendo alla lettera l'indicazione in partitura sforzato fortissimo. Tanto irruente questa apertura, quanto languido e sospiroso il primo tema agli archi. L'insieme di tutto questo primo movimento è un altalena continua di trepidazioni che seguono l'ondivago andamento che Rachmaninov traccia per il suo pubblico, ma a dare vita a tutto quanto è la straordinaria intesa pianista-direttore: a differenza di quanto di solito accade di ascoltare, Pappano ci mette il fuoco, il fuoco vero, e Romanovsky non è da meno!

Dolcezza sognante, invece, voltando pagina e passando al secondo movimento. L'orchestra smorza sensibilmente i toni, come carezzando i suoni prima di affidarli all'aria. La performance di Romanovsky si mantiene su livelli impeccabili, e il suo pianoforte assume tinte più discrete. Ma è un sogno di breve durata: il terzo movimento ci catapulta in un motorismo in cui le pirotecnie sono nuovamente di scena, col loro gioco di cristalleria tipico di Rachmaninov. Non mancano squarci lirici dall'andamento cullante: in particolare, ha colpito come l'insieme del volume sonoro, man mano sempre più attenuato, della direzione, che ha imposto un ritenuto ben scandito, e un'interpretazione pianistica che ha sfumato sempre più verso l'evanescente, abbiano dato l'impressione che il Concerto dovesse finire come spegnendosi, prima della coda (Allegro vivace in fa diesis maggiore), all'insegna della fanfara, in chiave apertamente teatrale. La sintesi è avvenuta: dalle cupe sonorità del primo movimento all'approdo gioioso del terzo.

In risposta agli scroscianti, e meritatissimi, applausi, Romanovsky opta per il Notturno in do diesis minore Op. postuma di Fryderyk Chopin: delicato come il bacio di una fanciulla.

Christian Speranza

2/4/2015

Le foto del servizio sono di Pasquale Juzzolino.