RECENSIONI
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La pazza della porta accanto

Sin dall'antichità è noto che la genialità, sia essa letteraria, musicale o scientifica, non è quasi mai disgiunta da un grumo di quella che i più chiamano anormalità: già Aristotele aveva dedicato una piccola opera a questo tema, dal significativo titolo La malinconia dell'uomo di genio, nella quale delineava alcune caratteristiche mentali generalmente associate ad una mentalità artistica, più o meno quelle che oggi vengono chiamate, con termini più o meno divenuti comuni, depressione o disturbo bipolare.

A questa sorte non sfuggì la poetessa Alda Merini, scomparsa recentemente dopo una lunga carriera poetica e letteraria che la pone in una posizione di tutto rilievo nell'ambito del panorama poetico contemporaneo. Da giovane, la Merini venne rinchiusa per qualche tempo in un manicomio, gestito con metodi che prevedevano tra l'altro il famigerato elettroshock, supporto terapeutico ormai completamente sdoganato dalla moderna pratica psichiatrica, e del quale sono ben noti gli effetti deleteri, quando non invalidanti sul paziente. Si trattava di un manicomio a tutti gli effetti, dove i malati, o presunti tali, venivano ridotti a numeri o a lettere dell'alfabeto, deprivati di qualunque forma di interazione che potesse definirsi umana o sociale, e affidati a personale spesso rozzo, impreparato, teso soltanto a tenerli buoni, talvolta con metodi inadatti anche alle bestie.

Questi anni della Merini Claudio Fava ha descritto con efficacia nel suo lavoro ispirato all'omonima opera della poetessa, La pazza della porta accanto, una produzione del Teatro Stabile di Catania e del Teatro Stabile dell'Umbria, presentato a Catania al Teatro Verga il 9 dicembre, con repliche sino al 23. Un intenso atto unico, nel quale si sono affollate, con stringata brevità atta ad immergere lo spettatore nell'atmosfera disumanante e claustrofobica di un manicomio della prima metà del Novecento, varie tematiche esistenziali e sociali che, partendo dal fulcro dell'esperienza della poetessa dei navigli, hanno tentato di eviscerare le complesse dinamiche psichiche dell'interazione tra malati, con un occhio polemico, ma notevolmente pregnante, alla concezione della malattia mentale come colpa, retaggio evidente di un cattolicesimo retrivo che la medicina ha tanto stentato ad espungere da sé.

L'ottima regia di Alessandro Gassmann, coadiuvata dalle suggestive musiche di Pivio & Aldo De Scalzi, tesa con un gioco di quinte mobili e con le luci fredde di Marco Palmieri a ricostruire, più che il manicomio, l'atmosfera che in esso si respira, ha ben reso il contorno di disperazione e di strenua ricerca di una dimensione umana della Merini, giocando anche sulle allusive videografie di Marco Schiavoni, che a tratti immergevano lo spettatore in una dimensione semionirica, quasi squarcio di luce e di vita umana nella cupa atmosfera manicomiale. La gestualità degli attori, esasperata talvolta, volutamente legnosa, ma iperrealistica nella riproduzione degli spasmi dei malati, è riuscita, complice anche un'inferriata mobile sulla quale alcune attrici si arrampicavano, a descrivere ostensivamente il carattere di prigione del manicomio in cui era rinchiusa la Merini, gabbia di ipocrisie, di desideri repressi, dove ogni sentimento viene negato in linea di principio ai pazienti.

Anna Foglietta, nel ruolo della Merini, ha offerto un'ottima prova di recitazione, soprattutto da un punto di vista gestuale e mimico: è riuscita a rendere le convulsioni dell'elettroshock con notevole realismo, evitando però ogni forma di caricatura, e mantenendosi sempre, cosa abbastanza difficile, nell'ambito di una superiore compostezza scenica che le ha permesso di far trapelare ad ogni istante la dolorosa realtà di una malata che sa di esserlo, ma che al tempo stesso desidera tornare alla normalità e imparare a convivere con un disagio mentale ben lontano dalla pazzia reale che si vede attorno.

Bravissimo Liborio Natali, il giovane Pierre, malato con il quale la protagonista intesse una breve e delicata storia d'amore: struggenti i dialoghi con la Merini, dove ha saputo rendere palpabile l'ansia di sentimenti unita alla paura delle regole imposte dal manicomio, e il lento sciogliersi del timore per arrendersi infine ad un'umanità che forse nemmeno la malattia può ottundere completamente.

Misurata e attenta la prova di Angelo Tosto nel ruolo del medico: abbandonando i ruoli comici e libero dalla lunga frequentazione col dialetto, ha rivelato doti di buon comprimario, una discreta dizione e una sensibilità per le pause e per il ritmo teatrale che dovrebbe mettere in mostra più spesso.

Di notevole livello attoriale anche il resto della compagnia, dalla caposala di Olga Rossi all'infermiera di Gaia Lo Vecchio, per finire con le pazienti impersonate da Alessandra Costanzo, Elle, Sabrina Knaflitz, Zeta, Cecilia Di Giuli, Enne, Stefania Ugomari Di Blas, Erre, e Giorgia Boscarino, Emme. Essenziali ma curati nel loro volutamente asettico cromatismo i costumi di Mariano Tufano.

Giuliana Cutore

10/12/2015

La foto del servizio è di Ombretta De Martini.