RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Sei personaggi senza più autore

Non si capisce bene perché ai registi non vada quasi mai a genio un dramma per come è stato scritto: sentono sempre il bisogno di attualizzarlo, di interpretarlo, di contestualizzarlo diversamente, di aggiustarlo in vari modi, ma mai che sentano la necessità di scriversene da soli uno nuovo e di affrontare il pubblico e la critica senza schermarsi dietro un grande nome. Inoltre, mentre tutti i grandi teatri tendono ad allargare le prospettive degli spettatori, evitando quanto meno l'uso del dialetto, e dunque lasciando il vernacolo alle compagnie amatoriali o dialettali, lo Stabile di Catania continua purtroppo a ospitare esperimenti drammaturgici miranti esattamente all'opposto, e cioè all'intrusione del siciliano in un testo in lingua, in una sorta di captatio benevolentiae che magari sarà a tutto beneficio di un certo pubblico, ma che di sicuro dà un'idea di provincialità che nulla ha da spartire con un ente teatrale che abbia ambizioni di respiro nazionale.

Nessuno nega che il dialetto possa costituire un patrimonio folkloristico, una tradizione da conservare e perpetuare, ma è anche vero che la Sicilia abbonda di testi teatrali vernacolari, spesso anche di un certo valore, e che non c'è alcun bisogno estetico fondato di infarcire di siciliano testi in italiano, a maggior ragione quando chi li ha scritti era nostro conterraneo e dunque, come del resto fece con altri lavori, avrebbe potuto scriverli direttamente in siciliano, se solo lo avesse voluto e soprattutto se ciò fosse stato funzionale alla sua poetica.

Fatta questa doverosa premessa, si può senz'altro passare a parlare dei Sei personaggi in cerca d'autore, di Luigi Pirandello, che ha inaugurato il 17 ottobre la stagione 2017-2018 dello Stabile di Catania, per la regia di Michele Placido, i costumi di Riccardo Cappello, le musiche di scena di Luca D'Alberto e le luci di Gaetano La Mela. Come si sa, questo dramma, rappresentato per la prima volta con un successo trionfale al Teatro Manzoni di Milano nel 1921, rappresenta una pietra miliare nella produzione teatrale del grande agrigentino, sia per la struttura, sia per il profondo significato filosofico a esso sotteso, sia per il continuo intersecarsi dei piani recitativi, i quali ultimi impongono agli attori che impersonano i personaggi della commedia da fare un notevole impegno e un'eccellente professionalità per riuscire a rendere le tre dimensioni sulle quali devono agire, e cioè personaggi che interagiscono col capocomico e con la compagnia, personaggi che esplicitano se stessi, attori che interpretano se stessi in quanto personaggi.

Non è un caso che lo stesso Pirandello abbia fatto precedere i Sei personaggi da una lunga Prefazione, nella quale spiega ed esplicita, in parte con una finzione narrativa, e riprendendo implicitamente anche racconti come La tragedia di un personaggio e Colloqui coi personaggi, l'iter mentale, artistico e ideologico che lo ha portato alla stesura del dramma. Si tratta di una Prefazione che contiene tutto quel che potrebbe servire a un regista che voglia mettere in scena i Sei personaggi in maniera fedele, congrua e soprattutto realmente contestualizzata all'epoca in cui Pirandello li scrisse, compresi anche preziosi suggerimenti sulla recitazione, come quando l'agrigentino scrive: «Io ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi appunto perché manca l'autore che essi cercano; e si rappresenta invece la commedia di questo loro vano tentativo, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi sei personaggi sono stati rifiutati». Da quale premessa parte invece Michele Placido a leggere le note di regia? Un totale fraintendimento: «Proprio durante la rappresentazione emergeranno aspetti maledetti e importanti allo stesso tempo. A questo punto si spiega perché questa famiglia è in cerca di un autore. Il suo autore primario, Pirandello, che li ha rifiutati. Rifiutati perché atterrito dall'idea di alimentare questi personaggi e definirli, tanto scandalosa era la loro storia».

Se solo Placido si fosse preso la briga di leggere la Prefazione, avrebbe scoperto che: Pirandello non era atterrito proprio da niente, anzi scrive: «…stimavo che non mettesse conto farli vivere», e poi che la vicenda esistenziale dei personaggi lo interessava poco, perché quel che gli premeva era «…il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa immutabile». Come dire il tema dei temi per Pirandello, quello che avrebbe portato alle estreme conseguenze in Uno, nessuno e centomila: l'incomunicabilità, la vita fissata per sempre in un gesto, in un istante, le stesse cose che il Padre continua a ripetere nel suo confronto verbale col Capocomico (da Placido tramutato in regista) e con la Figliastra.

Su questo fraintendimento di fondo Placido ha costruito i suoi Sei personaggi, pallida incomprensibile ombra di quel che Pirandello ha scritto: ha aperto il lavoro con una lunghissima recita a soggetto, infarcita di dialetto siciliano, di romanesco, di dizione sporca, facendo dello spazio dedicato agli attori della compagnia, momento preparatorio all'entrata dei Personaggi, l'occasione per le solite trite e ritrite gags comiche di bassa lega. Pirandello aveva sì previsto un brevissimo spazio a soggetto, ma ha lasciato anche una pressante didascalia su come gestirlo, e comunque c'era un copione bello e scritto, contenente anche delle battute su Il gioco delle parti, quasi un cameo alla Hitchcock, battute intese a preparare lo spettatore, non a fuorviarlo con la crassa comicità. Perché Placido abbia voluto imbastire questa superfetazione dialettale, della quale poi non c'è più traccia per tutto il dramma, non è dato sapere, così come non si riesce a capire perché La Figliastra abbia intonato una nenia siciliana e nessuno dei due brani che Pirandello aveva espressamente indicato nelle didascalie, e cioè il Prends garde à Tchou-Thin Tcho, “ridotto a Fox-trot”, o “One-Step lento da Francis Salabert”.

E con ciò veniamo a un altro difetto di questi Sei personaggi secondo Placido: la recitazione. A costo di diventare noiosi, val la pena ribadire che Pirandello, per ogni suo dramma, compilò didascalie accuratissime, ben conscio che il suo teatro imponeva agli attori notevoli sforzi per uscire dalla dimensione naturalistica ed entrare nella nuova dimensione, questa sì moderna ed europea, da lui voluta: e dei Personaggi scrive «Chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia bisogna che s'adoperi con ogni mezzo a ottenere tutto l'effetto che questi Sei Personaggi non si confondano con gli Attori della Compagnia…. I Personaggi non dovranno infatti apparire come fantasmi, ma come realtà create, costruzioni della fantasia immutabile: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori. Le maschere aiuteranno a dare l'impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell'espressione del proprio sentimento fondamentale…». Dunque, recitazione naturalistica per gli Attori e recitazione straniata (con o senza maschere) per i Personaggi. Cosa ha proposto invece Placido, che si è riservato addirittura il ruolo del Padre? Un'uniformità di piani totale, con una recitazione, soprattutto quella dei Personaggi, convulsa, a tratti isterica, spesso bofonchiata (soprattutto la sua), dove le battute del personaggio pirandelliano (sempre il Padre) venivano buttate via senza pause appropriate, a volte appena udibili per il solito vezzo di far parlare gli attori su sottofondo musicale o girati verso il fondo del palcoscenico. Non un istante in cui sia stato percepibile l'uscire e rientrare nel ruolo di Personaggio, l'essere attori di se stessi, ma soprattutto nessun lavoro di sbalzo e di rifinitura sul sentimento che ciascun Personaggio avrebbe dovuto raffigurare, immutabile e continuo.

Su questo fraintendimento totale si sono mossi tutti gli attori, da Silvio Laviano a Egle Doria, da Luigi Tabita, a Luca Iacono (un Figlio più nervoso che sdegnato, come invece lo avrebbe voluto Pirandello) da Dajana Roncione (una Figliastra con discrete possibilità se diretta da altri registi), sino a Guia Jelo, una Madre che ha portato ancora una volta sul palcoscenico tutta la sua teatralità naturalistica e non quella fissità lignea delle «immagini scolpite e dipinte della Mater dolorosa nelle chiese» che prescriveva Pirandello.

Giuliana Cutore

18/10/2017

Le foto del servizio sono di Antonio Parrinello.