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Toulouse

Eccezionale Meyerbeer

Osare una riesumazione de Le Prophète, titolo oggi praticamente sparito dal repertorio, può essere una pura follia se non si prendono misure serie per quanto riguarda interpreti – maestro compreso – e allestimento. Tutte le opere liriche del povero Meyerbeer, cui malvolentieri si riconosce – ancora oggi – l'importanza, richiedono per venire adeguatamente capite molti elementi di prim'ordine. A cominciare, naturalmente, dai cantanti. E John Osborn dimostrava che senza forse non ha ai nostri giorni rivali per il protagonista, l'ambiguo Jean de Leyde: sovrano nel fraseggio, di estensione sbalorditiva, una tecnica straordinaria con una voce mista inappuntabile, un acuto molto valido e a momenti audace, dei piani trasparenti, bravo attore. Uno di quei tenori forse meno celebri di altri ma ben più interessanti per quanto riguarda il canto lirico: tanto per dire, questo Prophète è stato ben più interessante e riuscito di tale Otello a Londra fortemente richiesto e pubblicizzato da tempo.

Kate Aldrich, Fidès, la madre, personaggio essenziale, importante almeno quanto quello di Jean, è certo un mezzosoprano e non un contralto, e sappiamo che Pauline Viardot, per la quale venne scritto il ruolo, era una cantante singolare, di estensione enorme, ma la voce si è ulteriormente sviluppata e in bene, e se alcuni dei terribili gravi estremi non erano nè facili nè belli, era padronissima della difficile tessitura.

Sofia Fomina traeva il masssimo partito da una parte ingrata come quella di Berthe (o Bertha, il libretto sceglie a caso le due possibilità) e anche se cantava bene l'aria di sortita (poco bella in verità, anche se difficile), l'interpretazione e perfino il canto guadagnavano in intensità a partire dal duetto con Fidès nel quarto atto. I tre perfidi anabattisti avevano tre mirabili interpreti nei bassi Dmitri Ivaschenko, già un ottimo Sarastro a Barcellona la stagione scorsa, e Thomas Dear, molto interessante, e nel validissimo tenore Mikeldi Atxalandabaso. Il tirannico signore del castello, conte Oberthal, un altro ruolo che dir difficile è poco, era nelle buone mani (e corde vocali) del baritono Leonardo Estévez, benchè in origini fosse stato pensato per un basso. Le numerose piccole ma non sempre facili parti venivano ricoperte da membri dell'ottimo coro, che si faceva onore nei molti momenti della partitura dove l'intervento è richiesto, magnificamente istruito da Alfonso Caiani.

L'orchestra era un lusso e questa è stata senz'altro la migliore prestazione di tutte quelle che ho sentito del maestro Claus Peter Flor, che sembra non solo capire ma anche – mirabile dictu – amare questa musica. La versione era completissima, anche con il balletto del terz'atto, quello celeberrimo all'epoca dei pattinatori, che questa volta però non c'erano, con coreografia di Pierluigi Vanelli, forse non azzeccatissima ma accettabile. La messinscena di Stefano Vizioli era chiara, prudente senza scemenze che possono danneggiare fortemente questo tipo di titoli, anche se le signorine scalmanate dell'incoronazione – quella della famosissima marcia – e la scena finale facevano pensare a un baccanale di Hollywood anni quaranta del secolo scorso, spettacolare quando bisogno c'era ma non sopra le righe, e in questo erano di grande aiuto le luci di Guido Petzold e le sobrie scene e i bei costumi di Alessandro Ciammarughi. Il successo, già importante alla fine del secondo atto, è diventato travolgente dal terzo in poi e, manco a dirlo, meritatissimo. Che qualcuno pensasse a farne un dvd, molto più necessario in questo caso che non in altri?

Jorge Binaghi

1/7/2017

La foto del servizio è di Patrice Nin.