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Madrid

Due compagnie per Turandot

Non è semplice fare una buona recita dell'ultima opera di Pucini e tantomeno con due cast diversi per le parti principali. Il Teatro Real è uscito a testa alta dalla sfida benchè abbia scelto una messinscena sicuramente bella dal punto di vista delle luci e dei colori (molto meno dei costumi) ma assolutamente antiteatrale dal punto di vista della drammaturgia e dei personaggi. Cioè, il tipico esempio del teatro di Robert Wilson, anche se questa volta non è arrivato agli errori maiuscoli de Le Trouvère a Parma, che servirà anche per Il Trovatore a Bologna. Ma costringere i cantanti a fare passi avanti e indietro prima delle loro arie (atto primo), far cantare Altoum appeso dall'alto mentre la principessa si presenta per gli enigmi alla stessa altezza di Calaf e i poveri Liù e Timur devono star presenti tutto il tempo non sono mostre di saggezza operistica. I cantanti vanno curati, se possono riposare devono farlo, ecc. D'altra parte poi non si toccano mai e Liù si uccide con un gesto simbolico e se ne va camminando. Le tre maschere sì che si muovono... forse troppo. Saranno le maschere della commedia dell'arte, ma a furia di ripetere sempre gli stessi movimenti e non fermarsi un attimo risultano invadenti, e a qualcuno è costato qualche problema vocale. Perchè poi quasi tutti debbano in un preciso momento scuotere una mano (o entrambe) come improvvisamente colti da Parkinsons non sono riuscito a capirlo. Forse è l'enigma di Wilson.

Nicola Luisotti dirigeva molto bene, con qualche eccesso sonoro nei primi momenti ma presto riportando il tutto a dimensioni adeguate, colossali quando si doveva e non sempre, con una grande ispirazione nei momenti lirici, e l'orchestra era in magnifica forma. Il coro preparato da Andrés Maspero suonava in qualche momento troppo forte – i soprani nelle lodi all'imperatore erano alquanto striduli – e non sempre si capiva bene quel che dicevano.

Nelle due compagnie spiccavano i due principali. Irene Theorin dava una visione più complessa e raffinata (anche sul profilo vocale) della principessa di sangue, ma Oksana Dyka era in buona forma e in un ruolo adatto ai suoi mezzi vocali; e qui un'interpretazione tutta ieratica e senza troppo sfumature può andare. Da canto loro Gregory Kunde e Roberto Aronica erano due brillanti Calaf. Il primo, di canto più variegato e con un'estensione enorme ma anche un timbro che sta diventando secco per il passare del tempo; il secondo ha quel timbro scuro e squillante dei tenori spinti italiani di un tempo (uno per tutti mi è venuto alla mente più di una volta Flaviano Labò) e un canto forse più uniforme ma sempre appassionato. Va detto poi che il finale di Alfano si sentiva nella versione più completa. Le due Liù avevano dei meriti diversi ma equivalenti: Yolanda Auyanet ha una voce più flessibile ma anche indizi di aver frequentato ruoli troppo pesanti troppo preso; Miren Urbieta-Vega è più giovane e più lirica ma anch'essa per ora ha dei piani metallici e forse ancora più fissi della collega – Liù è un soprano lirico pieno e oggi è difficile trovare un soprano che non sia troppo leggero o troppo pesante per la parte. Se Andrea Mastroni era un ottimo Timur (per un cieco si muoveva con grande agilità), quello di Giorgi Kirof risultava difficile da accettare con un canto d'intonazione incerta, un italiano deficitario e un acuto che faceva temere il peggio. Molto interessante il mandarino di Gerardo Bullón. Benissimo l'Altoum di Raúl Giménez. Una menzione particolare meritano i tre ministri non solo per l'enorme sforzo di coordinamento del loro moto perpetuo ma anche per l'intenzione del canto. Il migliore in campo era il Ping di Joan Martín Royo, ma sia Vicenç Esteve (Pang) che Juan Antonio Sanabria (Pong) risultavano efficacissimi.

Jorge Binaghi

19/12/2018

La foto del servizio è di Javier del Real