RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Le ragioni di un Riccardo femmina

Perché.

Perché uno shakespeariano “Richard II” donna e ribaltare, così, le convenzioni teatrali elisabettiane che volevano per Romeo un giovane attore e un giovane attore anche per Giulietta – idea che, cancellata dopo il 1660, sarebbe stata a sua volta ribaltata alla fine dell'Ottocento da Sarah Bernhardt-Amleto fino ad un più vicino principe di Danimarca con corpo e voce di Manuela Kustermann (per non dire di Glenn Close uomo in “Albert Nobbs” nel 1982 ma quella è un'altra storia).

Le ragioni, dunque, di un Riccardo femmina possono, forse, ridursi a due: o perché si dispone di un'attrice potente e prepotentemente “hystrio” da trasformarsi prodigiosamente in altro da sé, beffandosi, ma seriamente!, di sesso e genere, o semplicemente pour épater le bourgeois.

Non ci sembra che la prima ipotesi si attagli a Peter Stein che demiurgicamente veste da Riccardo II Maddalena Crippa che, in missione per conto di Dio, è protagonista dello spettacolo prodotto dal Metastasio di Prato e proposto a Roma, in seno al calendario delle manifestazioni del Premio Europa per il Teatro in cui Stein, già insignito del palmarès nel 2011 a San Pietroburgo, figurava ospite della sezione “I ritorni”.

Se la Crippa può, alla lunga, risultare credibile come uomo, lo è assai meno come “attore”.

Chi l'ha detto che una voce “maschia” debba strozzarsi, scurirsi e oscurarsi in un ibrido tra un clone improbabile di Carmelo Bene e una Wanna Marchi in versione soft? Chi l'ha detto che, in quanto uomo (con scelte gay nel caso di Richard II) debba ostentare un incedere pesante, caricato di bruta austerità da “dux” anglosassone? Ciò non è necessariamente appannaggio maschile né esclusiva dell'uomo sono tracotanza, crudeltà, sete di potere.

Si apre il sipario su una scena minimalista (Ferdinand Woegerbauer), algida ma calzante, quasi ciò che resta di una cornice rubata ad un dipinto di Holbein, come efficaci sono le nude, minacciose percussioni, i gong, e la “Fanfare for the common man” nei momenti “clou”. E il re già ti stordisce con un metrica in odore di cantine anni ‘70/'80, un carico di toni gravi, ingolati che, già nelle sue prestazioni al femminile, non sono sicuramente i punti di forza del suo dire teatrale. E quel malcelato piglio brianzolo, poi, che la segue e la insegue, sempre, in Medea, in Pentesilea, in Clitemnestra.

Un grande, zelante lavoro di reviviscenza, forse, ma non ci può essere carisma di “villain” laddove c'è ingessata, pomposa, insistente caricatura. Aggrediti da suoni e toni falsi, non si è colti da nessuna sorpresa né travolti da nessuna pietas quando, vulnerabile e vulnerato a morte ancor prima della morte, Richard-Maddalena ha ormai dismesso la corona e scopre la disarmata zazzeretta color ghiaccio.

Eccessiva, avrebbe detto il cardinale Innocenzo Cibo come per la marchesa Cibo, nel “Lorenzaccio” di De Musset.

Intorno a lui-lei, eccidi “misteriosi” (dell'assassinio del duca di Gloucester il primo sospettato è il re), due Pari che se ne accusano a vicenda ed a far da garante è “mafiosamente” chiamato proprio Richard. E rivalse, sommosse, abdicazioni insanguinate. Logiche di potere che dovrebbero essere consunte e “antiche” sono invece più smaglianti che mai.

A dar vita (e morte) a infamità e ipocrisie è un cast di buona volontà, Graziano Piazza e Gianluca Fogacci, attori di buona sostanza qui mortificati dal ruolo – e Alessandro Averone, Andrea Nicolini, Almerica Schiavo, Giovanni Visentin, Marco De Gaudio, Vincenzo Giordano, Luca Iervolino, Giovanni Longhin, Michele Maccaroni, Domenico Macrì, Laurence Mazzoni – che tuttavia, in momenti d'azione, confronti violenti e qualche controscena di troppo, rischia di suscitare ilarità.

E poi c'è Paolo Graziosi.

Disincantato e a tratti tonante come un patriarca biblico, agonizzante (“Sei tu che muori anche se io sono il più malato”) ma più vivo che mai in termini di tragiche percezioni politiche (“L'Inghilterra ha fatto di se stessa vergognosa conquista”), è un Cristo già nel sudario. Il suo “vecchio” John of Gaunt, duca di Lancaster nonché lucido, franco, impietoso zio di Richard, vale, da solo, l'intero spettacolo. E al tempo stesso non basta ché lascia la scena troppo presto – salvo ritornare, poi, quasi come un memento, nei panni del “nobile gallese” e di un criptico frate incappucciato – assai prima che si compiano le 2 ore e 45 minuti di “Richard II” nell'ottimo italiano di Alessandro Serpieri.

A tratti si fa fatica a pensare che Peter Stein sia lo stesso che, con fermezza certosina e moderno, spregiudicato “Sturm und Drang”, formò piccoli giganti della scena (e non solo) come Bruno Ganz e Edith Clever la quale rammentiamo in una recentissima “Fräulein Else” al Festival di Salisburgo, “solo” in lettura eppure folgorante da far tremare i polsi.

Ma per carità, c'è un tempo per tutto.

Carmelita Celi

16/12/2017