RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Un Rigoletto di gran classe

al Bellini di Catania

Il melodramma, e in particolare quello italiano, non può essere esaminato unilateralmente: come abbiamo già ribadito più volte, l'opera lirica è un complesso edificio artistico, essenzialmente ibrido, che poco o nulla si presta a indagini che, privilegiando o soltanto il canto, o soltanto la musica, o soltanto il libretto, vogliano trarre conclusioni sull'adeguatezza vocale del tale o talaltro cantante, sulla direzione orchestrale, o sulla regia. Recensire la messinscena di un'opera lirica significa, in linea con Gadamer, innanzitutto cercare di ricreare la domanda, sociale, politica, o morale, alla quale l'autore ha cercato di dare una risposta con la sua creazione: non partire da questa domanda genera il pericolo di utilizzare categorie storiche ed estetiche assolutamente inadeguate al fenomeno artistico che si ha di fronte.

Ciò detto, è chiaro che non si può andare a ricercare nelle opere verdiane ciò che molti esperti di vocalità chiamano belcanto, spesso confondendolo col modo di cantare tipicamente italiano in contrapposizione al declamato tedesco di stampo wagneriano. Il belcanto, come notava giustamente Rodolfo Celletti, termina con Rossini, dopo aver trovato il suo acme in quel melodramma che poneva il virtuosismo canoro al di sopra della finzione scenica e della coerenza psicologica e storica dei personaggi. Già con Bellini e Donizetti si avverte l'inadeguatezza drammatica di un canto che stilizza i sentimenti, quasi neutralizzandoli in una vocalità esasperata che poco o nulla lascia sopravvivere dell'originario recitar cantando dal quale, grazie alla camerata dei Bardi, nacque il melodramma.

Questo processo trova il suo pieno compimento in Verdi, dove il progressivo scardinamento della forma chiusa recitativo-aria-cabaletta cede il passo ad una parola scenica che trova il suo supporto nella musica, il suo alimento nei versi del libretto, per disegnare personaggi finalmente coerenti da un punto di vista drammatico, sfaccettati, e soprattutto dinamici, il canto dei quali deve piegarsi alle esigenze psicologiche e non viceversa.

In tal senso, il Rigoletto andato in scena al Teatro Massimo Bellini di Catania il 20 ottobre, con repliche fino al 28, ha offerto al pubblico un buon esempio di interna coerenza drammaturgica, a partire dalla regia di Roberto Laganà, che ha curato anche le scene e i costumi. Si può dir quel che si vuole sul carattere scontato di una regia tradizionale, intendendo con ciò l'onesto intento di rispettare le intenzioni del librettista e del musicista, ma non si può non riconoscere che tale scelta presenta degli indubbi vantaggi, primo fra tutti quello di assecondare la particolare mimesis del melodramma, evitando che le parole cantate, di necessità in un italiano aulico, si scontrino semanticamente con la scenografia circostante, magari ipermoderna e seguitante un filo logico forse valido, ma che poco o nulla ha a che vedere con la vicenda e soprattutto col plot storico della vicenda narrata. La regia di Rigoletto non può permettersi di essere distraente, di catturare il pubblico più e meglio della musica e dei personaggi, ma deve limitarsi ad uno sfondo, sul quale vanno a sbalzarsi i personaggi, e in particolar modo il groviglio di passioni che agita il protagonista. Qui la scena era scarna, limitata a pochi elementi significanti, e affidava alle luci di Salvatore Campo la focalizzazione del dramma, in un algido cromatismo che sottolineava volta a volta uno snodo, un momento cruciale, un gesto.

Anche la direzione orchestrale, affidata al giovane e promettente Michelangelo Mazza, si è mossa su una linea di fondamentale rispetto storico e drammaturgico, evitando tempi slargati e compiacimenti sentimentalistici, forzando in certo senso i cantanti ad adeguarsi ad una partitura che intende descrivere sentimenti violenti, incalzanti, e dove la passione amorosa si consuma in rapidi e brutali corteggiamenti il cui fine è la carnalità nuda e semplice. L'orchestra del Bellini ha offerto una prova di buon livello, abbastanza precisa, mostrando di aver riacquistato colore e compattezza: notevoli le prestazioni strumentali, in particolare nel secondo quadro del primo atto e nella tempesta del terzo, dove i guizzi del flauto e dell'ottavino, descriventi i lampi, uniti al vento dei violini e ai tuoni delle percussioni sono riusciti a rendere davvero cupa l'atmosfera dell'omicidio incombente, vieppiù sottolineata dal fosco vocalizzare fuori scena del coro.

Il coro, istruito da Ross Craigmile, si è distinto per la chiara dizione e la precisione ritmica, manifestando anch'esso, soprattutto nel settore maschile, una ripresa e un riequilibrio generale delle sonorità che ci auguriamo proceda nel corso della prossima stagione. Di buon livello anche la prestazione del balletto istruito da Giusy Vittorino.

Dal punto di vista vocale, il giovane tenore Jai Know, nel ruolo del Duca di Mantova, pur possedendo un'innata musicalità e una discreta tecnica, lasciava alquanto a desiderare sia dal punto di vista dell'estensione vocale, abbastanza ridotta, ma soprattutto per un'opacità timbrica tendente talvolta al vero e proprio sbiancamento: spesso poco udibile negli ensemble, si è disimpegnato tuttavia con buona professionalità ne “La donna è mobile” interpretata con levità libertina ben aderente al personaggio.

Daniela Bruera, Gilda, è un soprano di solida tecnica, con una zona media accattivante, e capace di rendere appieno la disarmante ingenuità del suo personaggio, ma dovrebbe evitare di forzare continuamente nella zona acuta: ne trarrebbero grande giovamento la morbidezza del suono e soprattutto la copertura, la mancanza della quale ha generato spesso note abbastanza sgranate soprattutto durante l'esecuzione di “Caro nome”.

Maurizio Muscolino ha tratteggiato con eleganza il suo Sparafucile, in particolar modo nel primo atto, con una notevole tenuta della nota bassa che accompagna la sua uscita di scena. Bene anche nel terzo atto, anche se la Maddalena di Kulli Tomingas ha dato vita a qualche imprecisione nel quartetto “Bella figlia dell'amore” sfasando di fatto la coerenza ritmica dell'ensemble.

Alberto Gazale, nel ruolo eponimo, ha confermato appieno le sue doti di grande baritono verdiano: un Rigoletto quale a Catania non si sentiva da anni, attore e cantante al tempo stesso. Ha saputo delineare quel personaggio che Piave ha scolpito nel verso “O uomini, o natura, vil scellerato mi faceste voi”. Sì, perché spesso si dimentica che Rigoletto non è un personaggio positivo: è un uomo rancoroso verso la vita, e la sua deformazione fisica è purtroppo specchio di una natura fondamentalmente cattiva, votata alla vendetta non solo contro il Duca, ma contro il genere umano. Vendetta che gli si ritorce contro, frutto di una paranoia che lo coglie subito dopo la maledizione di Monterone. È un genitore tirannico, folle in fin dei conti come Azucena: e sbaglia chi in Rigoletto cerca il belcanto, o un'eleganza che non può avere. Lo storpio si muove sul ritmo zoppo che segna il suo ingresso al secondo atto, impreca, odia, e gli sprazzi di amore paterno non sono raggi di sole, ma lividi lampi di luce, come quelli della tempesta del terzo atto. Voce estesa, piena, con una zona medio-grave di notevole spessore timbrico, che negli acuti sembra illuminarsi sfiorando le zone tenorili, Gazale ha cantato con un'aderenza al personaggio davvero rara, curando ogni particolare dei recitativi, spezzando talvolta le frasi in ghigni o singhiozzi, senza mai trascurare la mimica: elegante nei portamenti e nei legati, dotato di un fraseggio verdiano che scolpisce il canto nella parola scenica quasi sbalzando il personaggio dall'interno, è riuscito, anche nei momenti più impervi, a non forzare mai, seguitando la melodia grazie a quell'ormai rara qualità che è il cantare sulla voce.

Giuliana Cutore

21/10/2015

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.