RECENSIONI
-

_ HOMEPAGE_ | _CHI_SIAMO_ | _LIRICA_ | _PROSA_ | _RECENSIONI_| CONCERTI | BALLETTI_|_LINKS_| CONTATTI

direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

 

Partitura fittizia per strumenti immaginari

Molte, moltissime persone sono qui per rendere omaggio ad uno dei maggiori esponenti della danza contemporanea, un nome già conosciuto a Reggio Emilia per il Festival Danza di trent'anni fa, in cui furono messe in scena sei prime assolute, e questa sera, 13 febbraio, al Teatro Valli con A Quiet Evening of Dance. Ma fa anche piacere vedere che nel corso di queste tre decadi William Forsythe ha guadagnato nuovi, giovani ammiratori, almeno a giudicare dai gruppetti di ventenni che attendono pazienti nel foyer.

Quinte nere, palco nero, sipario aperto. La scena appare neutra, pulita, come se fosse stata appena liberata da ingombranti scenografie. Prepara lo spettatore a un'idea di semplicità e libertà. In un teatro gremito, lo spettacolo comincia improvviso e vitale, con le luci ancora a mezza sala e il pubblico che si accomoda in platea.

Per noi, che alla danza contemporanea ci siamo avvicinati in età matura, mossi per lo più da un'istintiva affinità e non supportati da una sterminata conoscenza della materia, è il momento di mettere mano al taccuino e provare a buttare giù qualche riga, cercando così di esorcizzare il timore di perdersi qualcosa e poi faticare a dire qualcosa di sensato.

Dunque.

Difficile trovare un suono più adatto a vestire quel quiet del titolo se non, ovviamente, il silenzio totale: viene scelto il cinguettio pacato di uccellini per accompagnare i movimenti ampli, eleganti e classici di una coppia di danzatori che dal nulla riempie il palco con questa bella presentazione, un'ouverture danzata in un bosco sonoro, dove c'è anche il vento, o forse ce lo siamo solo immaginato. Il primo quadro si conclude con la stessa dolcezza con cui era cominciato, mentre le luci si abbassano fino al buio e il suono svanisce. L'uomo e la donna che danno vita alla scena successiva ci regalano la performance più estrema dello spettacolo, un gioco di fisicità pura, anatomica, in cui la coppia si esibisce in una serie di movimenti che fanno leva, non solo metaforicamente, su ginglimi e articolazioni, il modo in cui la danza si fa e come un corpo danzante funziona. Con una sensibilità coreografica magistrale, Forsythe mette in piedi un numero di venti minuti circa, durante il quale risulta evidente un passaggio da una logica bidimensionale – danzatori faccia al pubblico impegnati in movimenti che potremmo definire piani – verso una complessità sempre crescente, che porta gli interpreti a riempire gradualmente il vasto palco, accompagnati solo dal proprio respiro via via più sonoro e affannoso. Il coreografo mette così alla prova il pubblico e gli chiede implicitamente se sia capace di riconoscere, in quel linguaggio eccezionale che è la danza, le situazioni, gli stati d'animo e le emozioni che fioriscono fluidamente nella nostra mente nel corso di un giorno qualsiasi: mentre partecipiamo emotivamente alla fatica fisica di chi è in scena – aiutati in questo dalla postura richiesta a chi siede nel secondo palco – cogliamo ironia, complicità, affiatamento. A questo punto dello spettacolo, con i quadri che seguono, la scena accoglie i vari membri della compagnia con sapienti alternanze di scene collettive e duetti, musica minimale e cinguettii, introducendo la variabile affascinante della personalità e dando modo ad ogni danzatore di sfoggiare la propria particolare attitudine verso quest'arte. C'è quindi uno spartito condotto dal regista, una visione d'insieme che comprende registro, colore e organicità, e c'è un'orchestra da camera, con sette strumenti diversi, ognuno con il proprio suono, il proprio carattere, la propria tonalità; al di sopra di questo, Forsythe aggiunge alcune note spiazzanti e geniali, come l'uso di sgargianti guanti attillati coloratissimi che i danzatori indossano a più riprese e che diventano, visivamente, una sorta di protesi, una parte del corpo dal peso diverso e perciò elemento di aggraziata stonatura. Il primo atto si chiude con la cesura importante di un sipario nero che cade sul palco improvvisamente, quasi mentre si sta ancora danzando.

Uno stacco drammaturgicamente necessario che ci accompagna verso un più disteso secondo atto: il manifesto è stato scritto, le intenzioni svelate, non rimane che regalare al pubblico la lenta discesa nella Tranquilla Serata di Danza. Se nel primo atto il voler mescolare stili e colori e materializzarlo nella corporeità dei vari danzatori era appena accennato, da qui in avanti questa idea diventa una costante sempre più presente, proposta in varie combinazioni di coreografie e stili, mettendo insieme le ampie parabole del balletto classico e le cuspidi ruvide dei linguaggi più popolari. Il pubblico risulta visibilmente più rilassato e appagato, l'attenzione mantenuta viva dal procedere coordinato dei quadri coreografici con gli otto brani di Jean Philippe Rameau.

Nello strano e geniale sistema di sovrapposizioni ideato, contempliamo gli innumerevoli livelli di significato prodotti dal continuo irrompere di nuovi linguaggi – RubberLegz, nome d'arte di Rauf Yasit, spariglia e contorce la normalità dei quadri con incredibili power tricks presi dalla break-dance, strappando urla di approvazione da parte del pubblico femminile: e proprio mentre realizziamo che l'essenza di questo spettacolo – e forse di tutta la danza – è il tentativo di instaurare una corrispondenza con gli interpreti che ha qualcosa di arcaico e profondamente fisico, oltre che emotivo, lo spettacolo volge alla fine, lasciandoci la testa piena di discorsi mai ascoltati e una sana, leggera e liberatoria stanchezza.

Giovanni Giacomelli

16/2/2019