RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 

Oh, ingratitudine, demonio dal cuore di marmo…

Servo di Scena

di Ronald Harwood

Nell'antica lingua dei greci il termine attore era indicato da una parola che oggi viene riservata solo a chi finge, o allo scopo di imbrogliare il prossimo, o a quello di nascondere se stesso: ypokrites. Un ipocrita, dunque, l'attore, ma nel senso greco anche colui che risponde, giacché il verbo krino in tale lingua significa appunto replicare, ribattere. Insomma, nel gioco di un'ermeneutica lingua poetica di heideggeriana memoria, si potrebbe dire che l'attore è un individuo che risponde, grazie alla finzione scenica, alle esigenze della sua epoca, alle domande che il suo tempo gli pone.

Naturalmente, un personaggio dotato di tale ambiguità semantica, del resto ben percepita anche nell'antichità, non poteva non diventare, nel corso dei secoli, oggetto delle attenzioni di drammaturghi e romanzieri; in particolare va ricordato il bellissimo Mephisto scritto da Klaus Mann, figlio del grande Thomas, dove la carriera di un attore viene vista alla luce dei suoi rapporti con il Terzo Reich hitleriano, del quale diventa una delle anime culturali, continuando però ad aiutare, nei limiti del possibile e in maniera clandestina, i suoi antichi compagni di sinistra. Dotato di grande talento, il protagonista di Mephisto troverà il suo personaggio d'elezione appunto nel diavolo faustiano, mentre, a suo grande scorno, il repertorio shakesperiano, e in particolare l'Amleto, gli sarà sempre scenicamente negato. Servo di fatto del regime e del suo personaggio, il Mephisto manniano è un sublime istrione, dell'istrione ha tutti i vizi, dall'autocompiacimento all'autoreferenzialità, ma soprattutto sono le donne, in particolare una sensualissima negra, che agiscono su di lui come un potente stimolante, consentendogli di brillare nei suoi ruoli migliori.

Scritto nel 1936, e divenuto poi un film negli anni '80, Mephisto può in un certo senso considerarsi un po' come il progenitore di Servo di Scena, anch'esso divenuto un film, scritto e poi sceneggiato da Ronald Harwood: anche qui c'è una compagnia di attori, anche qui il periodo storico è quello hitleriano, anche qui il protagonista è un sublime istrione, nella vita e sulla scena, ma i suoi ruoli sono quelli shakesperiani, ricordo certo del posto preminente, quale icona culturale dell'Inghilterra tormentata dal nazismo, che il bardo ebbe fino alla fine della seconda guerra mondiale. Pronto a strumentalizzare ogni cosa in nome della sua arte, il Sir, primo attore di una compagnia che gira per l'Inghilterra con il suo repertorio shakespeariano, ama le belle donne, ma è ormai vecchio e stanco, forse anche un po' svanito, ma si ostina a recitare, conscio forse di nulla essere al di là e al di fuori della scena. Gli sta accanto da sempre Norman, il servo appunto, servo del Sir ma al tempo stesso della scena, perché è grazie alla sua dedizione, al suo farsi ombra, al suo prevenire le stranezze del padrone, che conosce benissimo, che l'ultima recita andrà in porto, e il Sir sarà per la 227esima volta Re Lear, personaggio metafora di un'Europa sperduta nella plumbea tempesta della follia hitleriana. Come il suo personaggio, Sir morirà subito dopo la rappresentazione, ma per il devoto servo non ci sarà una parola di gratitudine, un gesto, nulla: e forse non a torto, perché Norman non ha servito un uomo, un attore, ma solo il teatro, che nell'attore si incarna, ma possiede una sua forza vitale al di qua e al di là della vita.

Un testo dei molteplici piani di lettura, questo di Ronald Harwood, riproposto dal teatro Stabile di Catania nell'ottima traduzione di Masolino D'Amico, con protagonista, nel ruolo appunto del Sir, un Franco Branciaroli che ha interpretato con piglio sicuro un personaggio molto sfaccettato, che giocava su vari registri di recitazione, dal comico, al grottesco, all'aulico (nel ruolo interno di Re Lear), fino al tragico e all'elegiaco, specialmente nella parti finali. E Branciaroli ha dimostrato di sapersi condurre con estrema misura, con notevole padronanza scenica, con passaggi di registrospesso fulminei, senza una sbavatura, senza un momento di cedimento. Quel che più ha colpito è stata la sua costante coscienza di essere un attore che interpretava un attore (che poi a sua volta interpretava un personaggio): da qui un distacco scenico dal primo all'ultimo istante, avvertibile nell'uso della voce, nella gestualità ricercata, ora rallentata ora no, elementi tutti che davano la netta impressione che recitasse come guardando se stesso dall'esterno, teso a rendere al meglio la psicologia e le movenze di un attore del primo Novecento.

Anche la regia, curata dallo stesso Branciaroli, si è volta a mettere in evidenza un tale sdoppiamento, con un piano inferiore, quello dei camerini della compagnia, dunque quello della vita, dell'esistenza, e dunque anche del servo Norman, e un piano superiore, dove si sarebbe svolta la rappresentazione, vista però dalle quinte, dunque dal punto di vista del teatro nel suo farsi, nel suo divenire personaggi, scene e illusioni.

Ottima, pur con qualche compiacimento di troppo, la prova fornita dal bravo Tommaso Cardarelli, nel ruolo di Norman: vivacissimo e rutilante sulla scena, ha tuttavia esagerato un po' con una dizione cantilenante, sporcando abbastanza e impedendo di cogliere alcune battute. Ha trovato però un'eccellente misura nel finale, dopo la morte del padrone, riuscendo a divenire padrone di un'ironia amara che, se ben utilizzata sin dall'inizio, avrebbe dato uno spessore di notevolissimo livello alla sua prestazione.

Di buon resa anche il resto della compagnia, da Lisa Galantini a Valentina Violo, dall'incisivo Daniele Griggio al bravo Giorgio Lanza, mentre Melania Giglio avrebbe dovuto meglio calibrare la sua gestualità, a tratti alquanto legnosa e ai limiti del caricato.

Giuliana Cutore

16/4/2013