RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


Errare humanum est,

perseverare autem diabolicum…

Chissà perché, quando sento parlare di rivisitazioni, attualizzazioni e ripensamenti delle grandi figure del passato, il mio cervello si ostina a inviarmi immagini di zombie, o peggio ancora, mi echeggiano nelle orecchie le note della povera Butterfly ridotta a donnina di piacere, tra frigidaire e Coca Cola, ad opera di tale Ken Russell, al quale si deve l'apertura di un filone di sistematico violentamento dei capolavori della lirica che, come tutte le idee bislacche, ha subito nidificato al ritmo vertiginoso dei criceti anche nelle altre arti sceniche, drammaturgia in testa.

Sì, perché, e non ci si stancherà mai di ripeterlo, pur avendo un patrimonio drammaturgico capace di riempire tutti i teatri del mondo da qui all'eternità, oppure, in alternativa, essendo sempre possibile proporre nuove opere teatrali originali e dotate di senso autonomo, registi e autori teatrali si incaponiscono o a ridurre romanzi per la scena, con esiti disastrosi peraltro già previsti da Aristotele nella Poetica nel confronto tra epica e tragedia, o a proporre regie più o meno cervellotiche, autoreferenziali e possibilmente in lotta continua con il testo, o a inventarsi degli strani pastiches (non è possibile definirli altrimenti), dove una figura di rilievo viene tirata a forza dal sepolcro nel quale cerca di riposare e cacciata a forza sulla scena per fungere da protagonista di una piecès ritagliata, lacertata e rabberciata alla meglio da testimonianze coeve, opere saggistiche, epistolari et similia, al fine di costruire un personaggio che permetta all'attore di turno di far sfoggio di quanto sa far di meglio o di peggio.

Queste amare riflessioni mi hanno percorso la mente per tutta la durata del Socrate di Vincenzo Cerami, che va in scena per la regia di Ezio Donato al Verga di Catania dall'11 al 26 aprile: tanto per cambiare, le note di regia comunicavano che Vincenzo Cerami aveva ridisegnato e adattato per la scena la figura del maestro di Platone, e già questo era un assunto che, almeno per i miei standard, non prometteva nulla di buono. Le note continuavano citando le fonti alle quali l'autore avrebbe attinto, e cioè l'Apologia, il Critone, il Fedone e Le Nuvole, e riprendendo un'idea dell'antica critica filosofica, ma sarebbe meglio chiamarla preistorica, secondo la quale alla base della morte di Socrate ci sarebbe stata proprio la commedia di Aristofane: idea ormai completamente sdoganata, e che comunque non ha mai avuto un grande diritto di cittadinanza nel mondo filosofico almeno dal Novecento.

Comunque, da quel che si poteva capire, l'idea era quella di mostrare le due facce di Socrate, e cioè quella platonica e quella di Aristofane, già omettendo implicitamente la terza, cioè quella di Senofonte, che avrebbe dovuto avere almeno pari diritto di cittadinanza: non si trattava però di un saggio critico ma di una pièce, e su questo si poteva tranquillamente glissare.

L'apertura del sipario ha proposto una specie di obbrobrio temporale, con Santippe abbigliata come una contadina siciliana dei primi del Novecento, alcune ragazze con abiti dello stesso genere, che discutevano animatamente con il direttore del carcere (sic!) dove si trovava Socrate, un individuo paludato in divisa bruno verde, con pantaloni di foggia moderna, e un bel paio di occhiali. Si proseguiva con carcerieri dello stesso tenore, alunni di Socrate in giacca e cravatta che, pur se dotati di molta buona volontà, recitavano abbastanza a casaccio, con toni tendenti più all'urlo e dizione carente, in linea con le donne, con movimenti continui e evitando accuratamente la sia pur minima pausa, che avrebbe conferito un po' più di espressività all'insieme. Inoltre il copione, rabberciato alla meglio dalle succitate opere di Platone, mostrava la presenza di qualche termine strano, tra cui la parola disinfettante

Socrate, impersonato da Pippo Pattavina, abbigliato nella stessa maniera degli altri attori, con l'aggiunta di una sorta di toga, evidenziava le stesse sfasature temporali, oscillando tra un naturalismo spiccato, una gestualità davvero poco adatta al filosofo sul punto di bere la cicuta, e in generale ad un uomo del V secolo a. C., oltre ad un disagio ben avvertibile nei confronti del ruolo, che avrebbe necessitato innanzitutto di pause significative nel corso della recitazione, buttata invece lì tutta di seguito e senza respiro, e soprattutto di un uso attoriale della voce, invece assolutamente monocorde con solo qualche virata nelle solite urla.

Il secondo tempo, per metà incentrata sulle Nuvole ridotte non a varietà, che sarebbe generoso, ma ad avanspettacolo, vedeva invece un Pattavina in perfetta forma, con paglietta alla Ciccio Formaggio, che sguazzava allegramente tra battute triviali, gigionerie e virate nel siciliano, con contorno di carrettella sugli omosessuali, in un duetto tra Socrate e Strepsiade che dimostrava a iosa che né Cerami né il regista avevano capito un atomo della pederastia greca, che nulla ha a che fare con le farsacce siciliane che prendono di mira gli omosessuali: ricordo, per chi non lo sapesse, che in Grecia l'amore omosessuale faceva parte della vita di qualsiasi uomo, e che alla pederastia erano dediti pressoché tutti i maschi, financo Alessandro Magno, e che tale amore ha ispirato poeti come Ibico e Teognide di Megara, che certo niente avevano a spartire con la vastasata alla quale abbiamo assistito.

Dopo aver dato fondo a tutto quel che poteva essere in assoluto contrasto con ogni forma di commedia greca (e ricordo, sempre per chi non lo sapesse, che la commedia antica, pur se abbastanza scurrile, si muoveva sempre nell'ambito di una concezione del teatro ben lontana dai fescennini romani), con canzoncine su musiche dello stesso Pattavina, e dopo aver ridotto Socrate ad una specie di imbonitore da fiera paesana, anzi a un maleducato Dulcamara, la scena si spostava di nuovo al Socrate platonico (per modo di dire!), proponendo alcuni momenti salienti del processo, con tanto di sbarra per l'imputato, più o meno in stile Perry Mason, attori in giacca e cravatta e pubblico femminile vociante: ritengo superfluo spiegare che le donne greche, tranne le etere, nel V. secolo a.C., non uscivano quasi mai di casa, e comunque non si aggiravano per l'Aeropago da sole… tanto è vero che per scovare un amante, come racconta Lisia, dovevano aspettare i funerali di qualcuno della famiglia, unica occasione in cui una donna che non fosse una schiava era autorizzata ad andare fuori!

Ma, a parte questi non piccoli rilievi storici, il lavoro di Cerami e la regia di Ezio Donato mancavano completamente la figura di Socrate, limitandosi a metterne in mostra aspetti accuratamente rivisti e funzionali ad un discorso politico abbastanza estraneo alla vera radice del pensiero socratico, incentrato sull'etica e non sulla politica: ipertrofizzare la dimensione politica a tutto detrimento della teoria del daimon, come voce interiore, istanza superiore della coscienza, e di quella del bene come conoscenza e del male come ignoranza, riducendo dunque la morte di Socrate a protesta contro Atene e il suo regime, relegando ai margini quella che era la vera accusa, cioè di corrompere i giovani, significa disconoscere la reale portata di un pensiero filosofico che, accentuando l'aspetto conoscitivo dell'etica, poteva non, genericamente “far ragionare la gente con la propria testa” (perché tanto, se ragiona male, è meglio che non ragioni), ma operare una demistificazione morale, sociale, religiosa, e solo allora politica nel senso più pieno del termine, ma questo sempre e soltanto ancorando e sottomettendo la politica all'etica, e non viceversa. Pallido e sbiadito, il Socrate di Cerami e Pattavina delude sia sul piano drammaturgico che attoriale, e questo sia per un pubblico che sa chi fosse Socrate in realtà, sia per chi vi si accosta da non addetto alla filosofia: una figura monca, svuotata della sua reale profondità, anche perché il collocare esattamente al centro del lavoro il filosofo non visto da Aristofane, cosa che si sarebbe anche potuta accettare, ma il Socrate di Aristofane rivisitato da Cerami e Pattavina, è quanto di più fuorviante, inutile e meno teatrale possa esserci, a meno che non si sia trattato di una captatio benevolentiae ad esclusivo uso del protagonista e di certo pubblico…

Giuliana Cutore

17/4/2015

Le foto del servizio sono di Antonio Parrinello.