RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Chi ha paura muore ogni giorno,

chi non ha paura muore una volta sola…

Una sonnolenta cittadina siciliana, di quelle in cui il tempo sembra essersi fermato, cristallizzato in un'esistenza agricola dove il più importante fatto di cronaca è un furto di galline, e un'altrettanto sperduta stazione dei carabinieri, che passano il tempo cucinando, leggendo il giornale e dando retta allo scemo del villaggio che un giorno sì e uno sempre si presenta a sporgere denuncia contro ladri immaginari, perché non fa altro che perdere oggetti, dimenticandoli qui e là e credendo di conseguenza che gli siano stati sottratti; un maresciallo amico d'infanzia del brigadiere, un tenente che tenta invano di mettere ordine in questo bailamme, un carabiniere innamorato della fornaia, una giovane virago che elargisce ciambelline e pizzette a tutta la stazione della Benemerita.

Sono questi gli ingredienti della brillante commedia di Antonio Grosso, andata in scena al Brancati di Catania il 23 marzo, con repliche fino al 9 aprile, dal titolo Minchia, Signor Tenente, citazione dalla canzone di Giorgio Faletti presentata a Sanremo nel 1994: una pièce che inizia quasi in sordina, con tratti ora da avanspettacolo, ora da barzellette sui carabinieri, ora da commedia dialettale intrisa di polilinguismo, visto che i carabinieri sono sia siciliani che napoletani che romani. Si ride spensierati, si è convinti di assistere a uno spettacolo francamente ed esclusivamente comico, e per tutto il primo tempo si viene piacevolmente ingannati da questo clima ilare, fatto dalle ossessive denunce dello smemorato Domenico Parerella, interpretato da un Adriano Aiello in gran forma, che presta le sue notevoli doti mimiche e la sua esilarante tecnica attoriale alla figura dello scemo, dal brigadiere D'Onofrio, interpretato dallo stesso Antonio Grosso, che litiga e battibecca col maresciallo Chichierchia (Antonello Pascale) e con l'appuntato Milito (Gaspare Di Stefano). Anche l'arrivo del nuovo tenente Attilio Prisco (Francesco Nannarelli), un continentale convinto di dover risollevare l'onore dell'Arma, spaesato dinanzi al clima tipicamente meridionale che regna nella piccola stazione, non fa altro che aggiungere risate alle risate, così come i duetti tra la fornaia (Federica Carrubba Toscano) e gli altri carabinieri, impersonati da Giole Rottini e Francesco Siggillino.

La notizia che spetterà a due carabinieri della stazione scortare un giudice giunge quasi in sordina, e sembra un evento lontano, che non avrà alcuna influenza sulla trama. E così, ancora convinto di assistere ad una commedia, il pubblico ascolta l'ennesima denuncia dello scemo, che non ce la fa a dire quanti soldi aveva nel portafoglio che in realtà ha dimenticato al supermercato, e si continua a ridere, perché tutti gli attori sembrano mettercela tutta per essere il più comici possibili. Si ride ancora quando lo scemo tira fuori un'agendina unta e bisunta per rispondere al brigadiere che gli chiede che giorno sia, e si ride ancora perché Parerella dice “2 omaggio”: purtroppo lo scemo ha sbagliato a leggere, perché il brigadiere si avvicina e legge “20 maggio 1992”. Tre giorni prima della strage di Capaci, dove morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.

La commedia volge in tragedia, è la Sicilia delle stragi di Cosa Nostra che piomba sul pubblico, il ricordo di un'estate di sangue, di morti che vanno ad aggiungersi a una miriade di uomini uccisi perché erano scomodi, perché erano onesti, ma uccisi talvolta anche senza un perché, come i tanti carabinieri e poliziotti morti perché scortavano i giudici. È quella Sicilia che gronda sangue, disonestà, politici corrotti, morti per i quali non si riesce o non si vuole trovare un colpevole, dove la mafia si è infiltrata nei gangli statali, per poi percorrere tutta l'Italia e annidarsi definitivamente a Roma. È la Sicilia dell'agenda rossa di Paolo Borsellino, sparita il giorno stesso della strage di Via d'Amelio, senza un perché, e mai più ritrovata…

Un lavoro di grande efficacia, recitato con grande e sofferta partecipazione, che la regia di Nicola Pistoia ha fornito di una degna, nostalgica e un po' retrò cornice, coadiuvata dalle scene di Fabiana Di Marco e dalle luci di Luigi Ascione; ma soprattutto un omaggio sincero e privo di retorica, dove la mafia svela tutta la sua bestiale ferocia nei monologhi dei due carabinieri ormai morti, che continuano sommessamente a chiedersi perché la loro vita sia finita a Capaci, perché lo Stato abbia permesso tutto questo, questa fila interminabile di morti le cui fotografie cominciano a scorrere pian piano, mostrando volti tragicamente famosi, per culminare con colui che, insieme a Borsellino, e per sempre unito a lui in una foto ormai emblematica, è il simbolo non solo della lotta disperata alla mafia, ma anche dell'abbandono in cui lo Stato lasciò uno dei suoi uomini più coraggiosi, salvo poi a sbracciarsi anno per anno a commemorarlo, mentre la mafia si incista nei gangli del potere: Giovanni Falcone.

Giuliana Cutore

28/3/2017

La foto del servizio è di Francesco Nannarelli.