RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Dalla Polonia con amore

Al Rossini Opera Festival torna una storica produzione di Torvaldo e Dorliska

 

Se Metternich definiva l'Italia una mera “espressione geografica”, priva di qualunque ontologia che non fosse quella linguistica, gli operisti italiani tra Sette e Ottocento avevano sviluppato una personalissima “idea di Polonia”: del tutto indipendente dalla geografia della nazione e intesa come un “altrove”, esotico ma non troppo, dove il territorio fosse una mera chiave stilistica per narrare vicende lacrimevoli e romanzesche, spesso con affondi neri e gotici (la standardizzata percezione del Nord da parte della sensibilità mediterranea…) ma coronate da un sistematico lieto fine. Il Cherubini di Lodoïska e Faniska rappresenta l'apogeo di questo percorso, mentre l'approdo conclusivo – proprio in quel 1815 in cui Metternich e il Congresso di Vienna sancivano lo smembramento territoriale italiano – sarà il Rossini di Torvaldo e Dorliska: lavoro semiserio, dunque ibrido per statuto, a mezza via tra impulsi libertari del libretto (il salvataggio dell'innocente perseguitata coincide con l'annichilimento anche politico del potente che la concupiva) e restaurazione classicista, con un Rossini forse mai così “tedeschino”, in un'orchestrazione gravida di reminiscenze haydniane e suggestioni mozartiane, a cominciare dall'importanza drammaturgico-strategica del clarinetto.

La medietas organica al genere semiserio implica una medietà anche vocale: sicché Torvaldo e Dorliska, a parte le siderali puntature del tenore (che proprio per la loro funzione estatico-catartica rappresentano lo zenit, non l'essenza, della scrittura), schiera due innamorati dove la baldanza di lui e i patetismi di lei s'incanalano su tessiture centralizzanti; mentre la malvagità dell'antagonista, a sua volta, s'invera in una complessione canora solo nominalmente da basso, e già baritonale a tutti gli effetti. In questa prospettiva, Salome Jicia (soprano che proprio nel registro centrale gioca le sue carte migliori) e Nicola Alaimo (assai più baritono che basso cantante) partono avvantaggiati rispetto a Dmitry Korchak: che, in quanto tenore contraltino, dal personaggio di Torvaldo può trarre profitto più negli episodici sfoghi sopracuti che nel resto dell'opera. Tuttavia, è lui l'elemento catalizzatore – e di gran lunga più pregevole – della serata: il fraseggio appare vario, sfumato, centratissimo pure nelle mezzevoci; la capacità di collocare alla perfezione la singola nota non va mai a scapito del “legato” (che qui ha un peso maggiore rispetto ai ruoli tenorili all'insegna delle agilità più rutilanti); e lo squillo sfoggia una fosforescenza e una capacità di penetrazione che distinguono Korchak dai mostri sacri rossiniani di ieri e oggi: semmai, detto con la debita cautela, ne fanno l'unico odierno epigono di Lauri Volpi.

La Jicia mostra un vibrato – comunque né sgradevole né invasivo – poco congruo per Rossini (tanto più per quello ancora “settecentesco” di Torvaldo e Dorliska): piace però la musicalità salda, soprattutto nel mezzoforte, e la personalità timbrica, che insuffla colore ombreggiato e trasalimenti non solo angelicati a un personaggio che è limitativo circoscrivere al versante elegiaco. Mentre Alaimo centrerebbe pure, sul piano interpretativo, quel personaggio di malvagio patologico, orco disadattato, innamorato incapace di amare che è il Duca d'Ordow: ma l'emissione scompaginata a livelli esiziali si traduce in un canto sgarbato e monotono, anziché sinistro e tormentato, nonché del tutto improponibile nella coloratura della potentissima aria di follia che Rossini colloca in sottofinale (e recupererà poi nell'Otello, sotto forma di duetto tenorile).

Gli altri personaggi rientrano nel côté buffo dell'opera: ma se Carlotta e Ormondo (l'una ben servita dalla voce sonora e tutt'altro che comprimariale di Raffaella Lupinacci, l'altro più pallidamente incarnato da Filippo Fontana) rientrano nella sfera dei caratteri satellitari, ancorché insigniti del loro primo piano solistico, il pavido “eroe per caso” Giorgio assurge al rango di quarto coprotagonista. Carlo Lepore l'affronta con fisionomia vocale quasi da opera seria – timbro denso, emissione robusta – e un saporoso taglio naturalistico: il che da un lato è proficuamente antitetico alla stilizzazione impressa da Rossini ai due innamorati, dall'altro appare in perfetta sintonia con il realismo romantico del genere semiserio.

Dal podio, Francesco Lanzillotta coglie le stratificate sollecitazioni stilistiche dell'opera; restituisce senza calligrafismi la trama degli autoimprestiti e delle anticipazioni che puntella questa partitura-laboratorio; lascia intuire una valida intenzionalità agogico-dinamica: e se alcune di queste intenzioni restano nella bacchetta, è perché non sempre l'Orchestra Sinfonica Rossini lo corrisponde al meglio. Per fortuna, resta a fuoco dall'inizio alla fine la parte visiva: riproponendo una produzione di undici anni fa, il Rossini Opera Festival ha consentito agli spettatori non solo di (ri)scoprire una splendida regia di Mario Martone, ma di assistere a uno spettacolo nel solco della migliore tradizione italiana. Un gusto del bello privo di compiacimenti estetizzanti (decisivo il contributo delle scene di Sergio Tramonti e dei costumi di Ursula Patzak) e un infallibile senso del teatro – diacronismi stilistici, ritmi comici, finzioni macabre (il finale è ingombro di cadaveri, Martone fa morire pure il buffonesco Ormondo) – rendono questa messinscena una pietra miliare del festival pesarese. Forse, è anche un'arma a doppio taglio: davanti a tanta freschezza e inventiva si nota ancor più la calligrafica serialità del Martone di oggi.

Paolo Patrizi

18/8/2017

La foto del servizio è dello Studio Amati di Pesaro.