RECENSIONI
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direttore responsabile _ Giovanni Pasqualino_


 

 

 

 


 

Luci e ombre su Tosca

al Teatro Antico di Catania

Tosca, secondo frutto dopo La Bohème e prima di Madama Butterfly della feconda collaborazione tra Giacomo Puccini, Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, è un'opera che, come poche altre nella storia del melodramma italiano, necessita di cantanti che abbiano ciascuno la levatura di un protagonista assoluto, e questo per esigenze non solo canore, onde evitare spiacevoli disomogeneità nel tessuto dell'esecuzione, ma anche e soprattutto perché soltanto dalla perfetta aderenza al ruolo prescritto e dall'assoluta idoneità vocale possono emergere e dispiegarsi, sia scenicamente che musicalmente, la reale complessità del dramma vissuto dai personaggi e le ambiguità e sfaccettature caratteriali che, quasi fatalmente, li condurranno all'esito finale. Né basta: Tosca è infatti un dramma nel quale alla classica vicenda amorosa tipica del melodramma italiano si uniscono altre ed evidenti implicazioni, quali l'uso del proprio potere da parte di un uomo corrotto come Scarpia, sia storico-politiche, che delineano Cavaradossi non solo come uomo innamorato, ma anche come un patriota fedele alle istanze libertarie che segnarono le tormentate vicende della Repubblica Romana, conclusesi purtroppo con la restaurazione dello Stato Pontificio.

Tosca dunque, come anche, solo per citare alcuni esempi, La Traviata o Il Trovatore, hanno bisogno di cantanti perfettamente in ruolo perché, come un Giorgio Germont che non riesca a far emergere il sottile conflitto interiore tra perbenismo borghese e umana generosità non permetterà alla grandezza morale di Violetta di emergere, o come un'Azucena che non sappia rendere il sottile e continuo oscillare della zingara tra follia, volontà di vendetta e amore materno ridurrà la vicenda a un fosco drammone ottocentesco, altrettanto uno Scarpia che non sia in grado di centrare la lussuria, sia mentale che fisica, del perfido barone, lussuria unita a una profonda ipocrisia di stampo cattolico e a una perfidia degna di uno Jago (non a caso citato dallo stesso terribile barone nel primo atto), rischierà di far naufragare la rappresentazione, e soprattutto il secondo atto, che è tutto di Scarpia, e dove egli dispiega sia la sua filosofia dell'amore, sia la sua crudeltà di capo della polizia, o in una scena di banale carnalità, o in un episodio di bassa brutalità, lasciando in ombra tutto il sottile gioco psicologico, intessuto di menzogne e di falsa bonomia, la cui eco continuerà a rimbombare possente per tutto il terzo atto, sino alla beffa postuma nei confronti dei poveri amanti. Né basta: perché anche Cavaradossi è contemporaneamente amante e patriota, e ciò deve riflettersi sia nel suo rapportarsi a Tosca, sia proprio nel secondo atto quando l'amor di patria, dopo la tortura, prende il sopravvento.

Questo lungo preambolo era necessario per condurci a una critica sia musicalmente che drammaturgicamente fondata alla Tosca andata in scena il 28 luglio (con repliche il 30 luglio e il 1° agosto) al Teatro Antico di Catania, nell'ambito della stagione estiva del Teatro Bellini di Catania. La regia, curata insieme alla scene e ai costumi da Renzo Giacchieri, è riuscita a sfruttare in maniera quanto mai funzionale il purtroppo ristretto e poco felice spazio del palcoscenico, offrendo nel primo atto un'ambientazione rispettosa del libretto, caratterizzata da scarni ed essenziali arredi sacri, con equilibrati movimenti scenici e con una buona resa del Te Deum finale, quando il coro è stato disposto sia sul palcoscenico, sia sul ponticello alla destra, dando l'idea della solennità del momento senza ingombrare in maniera eccessiva la scena. Il secondo atto è invece stato, sia da un punto di vista registico che canoro, il più debole dei tre, innanzitutto per l'inserimento sul fondo di una strana libreria che richiamava non troppo alla lontana una parete attrezzata, con una porta dalla quale entravano e uscivano gli sgherri del barone, libreria che stonava per l'eccessiva modernità e si rivelava poco funzionale, mentre sarebbe bastato un ampio drappeggio rosso per spezzare la monotonia dell'insieme e fornire un richiamo alla tortura di Cavaradossi. Completavano il tutto la classica tavola imbandita, un'agrippina e un incongruo mappamondo, con Scarpia conseguentemente costretto a firmare il salvacondotto sulla tavola della cena, e non allo scrittoio, a pochissima distanza da una Tosca che afferrava il coltello senza nascondersi troppo e tenendolo in modo che soltanto un cieco avrebbe potuto non vederlo. Inoltre, anche i movimenti scenici di Scarpia, nel drammatico dialogo con Tosca dopo la condanna di Cavaradossi, con brancicamenti e tentativi di amplessi assolutamente non previsti dal libretto, tendevano a dipingerlo più come un maniaco infoiato che come il freddo e ironico demonio previsto da Giacosa e Illica. Meglio decisamente l'ultimo atto, dove anche il disegno luci è riuscito a ricreare, complici anche delle discrete proiezioni, la cupa atmosfera di morte incombente voluta da Puccini con la sua musica.

A questa regia che ha optato per delle scelte a dir poco discutibili da un punto di vista drammatico, pur mostrando di sapere trarre il massimo da un piccolo palcoscenico, si sono accompagnati dei protagonisti che, pur se professionalmente validi, si sono mostrati, con l'eccezione della protagonista eponima Elena Rossi, ben fuori ruolo. Enrique Ferrer, Cavaradossi, dotato peraltro di un'interessante zona media che ha saputo sfruttare nel duetto del primo atto con Tosca (senz'altro il momento più felice della sua esibizione), non è riuscito a infondere al personaggio quel nobile patriottismo che ne costituisce un aspetto fondamentale: dopo un infelice esordio in “Recondite armonie”, ha cantato in maniera abbastanza monocorde tutto il secondo atto, per ritrovare poi migliori accenti e una certa espressività solo nel duetto finale. Lucian Petrean, Scarpia, anch'egli dotato di buona tecnica e di discrete qualità vocali, ha offerto uno Scarpia più gigionesco che crudele, precipitoso, troppo irruento, privo dell'algida crudeltà che dovrebbe caratterizzarlo, mostrando insomma il disagio per un ruolo che non gli si attaglia né per la voce, più adatta a ruoli leggeri e senz'altro meno demoniaci, né per presenza scenica. Elena Rossi, che avevamo già ascoltato anni fa in una Tosca a Taormina, ha confermato le sue doti di elegante fraseggiatrice e buona attrice: se non ha scolpito una Tosca di riferimento, tuttavia ha centrato il personaggio, sia da un punto di vista drammatico che vocale, in particolar modo nei duetti con Cavaradossi. Completavano il cast l'estroso Alessandro Vargetto (Sagrestano e Sciarrone), lo stentoreo Francesco Palmieri (Angelotti), Aldo Orsolini (Spoletta) e Marta Consoli (un pastore).

Puntuali e precisi gli interventi del coro istruito da Ross Craigmile e di buon livello il Coro Interscolastico “Vincenzo Bellini” diretto da Daniela Giambra. L'orchestra del nostro teatro, guidata con eleganza, sobrietà e precisione da Valerio Galli, si è dimostrata senz'altro la componente più valida e agguerrita di uno spettacolo purtroppo per molti versi di routine. Egregio l'amalgama orchestrale, misurate e composte ma incisive le percussioni (precise anche le campane all'inizio del terzo atto), eleganti i fiati: quanto agli archi, hanno ancora una volta dato il meglio di sé, culminando nell'assolo di violoncello del terzo atto, eseguito in maniera struggente dal maestro Vadim Pavlov.

Giuliana Cutore

30/7/2017

Le foto del servizio sono di Giacomo Orlando.