RECENSIONI
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All'Opera il Tristan lirico e sognante di Daniele Gatti

La vicenda di Tristano e Isotta, nella declinazione di Richard Wagner, è intessuta di una sostanza onirica lontana dai tradizionali percorsi drammaturgici, del tutto originale nella sua spavalda semplicità. Di questa alterità il regista Pierre Audi è perfettamente consapevole. Il suo è uno spettacolo essenziale, che nulla o quasi vuole sovrapporre al magistrale connubio di musica e dramma creato dal compositore tedesco. Un allestimento in coproduzione fra il Théâtre des Champs-Élysées di Parigi, l'Opera di Amsterdam e il Teatro dell'Opera di Roma, dove è andato in scena come titolo inaugurale della stagione.

Nel primo atto enormi paratie mobili dividono lo spazio in maniera sempre differente, richiamando solo vagamente il ventre oscuro o la tolda di una nave. Nel secondo atto il giardino del castello diviene un luogo astratto, segnato dalle ossa di un misterioso leviatano che spuntano dal terreno delineando le inquietanti prospettive di una foresta pietrificata. Un enorme monolite nero richiama gli squarci temporali dell'Odissea spaziale di Stanley Kubrick, svelando la dimensione del mito. Tutto è volto alla costruzione di quell'imperituro inno alla notte e all'anelito verso l'annullamento voluto da Wagner. L'intensità struggente del desiderio d'amore viene frustrata alla soglia del proprio compimento. Come nel Romeo e Giulietta shakespeariano, l'irrompere dell'alba spezza l'incantesimo; lo squarcio è insanabile, come la ferita prodotta da Melot nel corpo di Tristan. Nel terzo atto una piattaforma funebre, simile a quelle usate dagli indiani d'America, accoglie un corpo mummificato, mentre una piccola luce addita orizzonti metafisici. Tristan und Isolde non ammette distrazioni di sorta, e di questo Audi è perfettamente consapevole. Poche le licenze al fluido scorrere dell'azione interiore. Durante il preludio il regista materializza le pulsioni violente di Isolde nei confronti di Tristan, uccisore del suo promesso sposo. Proprio la testa di Morold viene mostrata nel primo atto, fugace concessione al macabro, durante le rabbiose invettive della protagonista. La scelta di mutare Melot in un uomo vecchio e claudicante, banalmente volta a identificare la malvagità con la deformità fisica, appare invece inutile e poco significativa.

Daniele Gatti aspira a una ritualità trascendente di germanica professionalità, entrando con gli altri orchestrali e rinunciando agli applausi che solitamente accolgono l'ingresso del direttore. Nelle sue mani l'Orchestra del Teatro dell'Opera sfoggia un suono morbido e avvolgente, perfettamente equilibrato. Trasparenze marine permettono di cogliere particolari sovente occultati dal magma orchestrale. Il maestro milanese aderisce con formidabili intuizioni e ammirevole flessibilità alla psicologia dei protagonisti, prediligendo il versante intimo del dramma. La materia orchestrale viene immersa in atmosfere sognanti, perfettamente in linea con la dimensione del mito.

Riguardo la parte vocale, come è noto il ruolo di Tristan annovera fra i più impegnativi dell'intera storia del teatro musicale. Richiede un cantante formidabile, e un ancor più grandioso interprete. Andreas Schager crolla purtroppo nel terzo atto, sciupando quanto di buono aveva fatto nel primo e nel secondo. Timoroso di non giungere alla fine, stravolge la parte di Tristan trasponendo intere frasi nel registro inferiore, tagliando arbitrariamente numerosi acuti. Stremato, nell'ultima recita in programma è stato infatti sostituito, non riesce a rendere con il dovuto fervore il delirio conclusivo del protagonista. Peccato perché, come dicevamo, nel primo atto aveva modellato fraseggi di focoso vigore, mentre nel secondo aveva retto in maniera egregia l'impatto del colossale duetto d'amore, mostrando anche una certa sensibilità interpretativa. Peccato specialmente perché il resto del cast era di buon livello complessivo. Rachel Nicholls è un'Isotta giovane, dalla voce chiara e luminosa, capace di un Liebestod di toccante intensità. La affianca una brava Michelle Breedt come Brangäne. Buono anche il Kurwenal di Brett Polegato, ruvido e spavaldo come si conviene. Imponente per presenza scenica e spessore vocale il re Marke di John Relyea, capace di esprimere tutto il tormento interiore del sovrano tradito. Bravi infine Andrew Rees (Melot), Rainer Trost (giovane marinaio) e Gregory Bonfatti (pastore).

Il pubblico ha dimostrato di apprezzare, con particolari punte di entusiasmo per Daniele Gatti, da molti accreditato come futuro direttore musicale del Teatro dell'Opera di Roma.

Riccardo Cenci

14/12/2016

Le foto del servizio sono di Yasuko Kageyama.